Vi proponiamo qui di seguito una tavola rotonda immaginaria con Augusto Graziani, Enrico Pugliese, Giacomo Becattini, Piero Bevilacqua, Giorgio Cremaschi e Adriano Giannola, alcuni dei maggiori economisti italiani del Novecento. Si tratta della sintesi di alcuni articoli pubblicati su «il manifesto» tra il 25 febbraio e il 18 marzo 1998. La discussione, provocata da alcune riflessioni di Graziani, nonostante risalga a più di un quarto di secolo fa conserva in modo strabiliante la sua attualità, soprattutto in relazione al dibattito sugli investimenti indotti dal Pnrr.
Il dialogo, che originariamente si focalizzò sull’intervento per lo sviluppo del Mezzogiorno, oggi può essere facilmente adattato per ragionare sullo sviluppo economico e la crescita dell’intero territorio nazionale. E la lettura di questa sintesi di articoli, integrata da alcune nostre aggiunte in corsivo inserite per renderla più scorrevole, può costituire un’utile sollecitazione per avviare il ragionamento sul significato di fabbisogno territoriale e sulla strumentazione occorrente per rilevarlo.
Augusto Graziani «Il risultato delle politiche finora attuate hanno trasformato gradualmente le aree sottosviluppate in un immenso laboratorio degradato che in apparenza ospita attività manifatturiere ma, in sostanza, ospita il segmento più povero della produzione industriale, quello della lavorazione materiale, mentre i segmenti ricchi dell’industria moderna (progettazione, design, ricerca tecnologica, finanze, mercato) restano altrove, in altre regioni o in altri Paesi. Le aree sottosviluppate, e progressivamente l’intero nostro Paese, rivestono sempre più una posizione subalterna nella grande gerarchia dell’industria mondiale: i vertici della tecnologia restano nei Paesi più avanzati, le regioni italiane del Centro-Nord occupano posizioni intermedie, con alcuni contributi di design e di innovazioni minori, mentre il Sud, con le lavorazioni materiali, si trova su un gradino più alto di Paesi quali la Turchia o l’Albania.
Fino a quando si insisterà sulla precarizzazione del lavoro come strumento principe per il rilancio delle imprese si sfonderà una porta aperta che conduce a un vicolo cieco che conduce a perpetuare un’industria povera, perennemente in concorrenza con Paesi che possono offrire lavoro e costi ancora minori e legislazione molto più tollerante sulla sicurezza del lavoro e sulla lotta all’inquinamento.
Non si possono ignorare invece le esigenze concrete del Paese. Esigenze che fanno sentire anzitutto sul terreno delle infrastrutture […]: strade, ferrovie, acquedotti, telecomunicazioni […] sono oggi molto al di sotto di quello che sarebbe necessario per ospitare un’industria moderna. Anche soltanto su questo terreno, e senza pensare a opere faraoniche a realizzabilità incerta come il ponte sullo stretto di Messina, vi sarebbe un vasto campo di intervento per un ente pubblico, intervento che oltre tutto svolgerebbe un’opera di pronto soccorso per la disoccupazione.Al di là delle infrastrutture, in un orizzonte più vasto, si apre il campo delle attività direttamente produttive e quindi della produzione industriale. Qui è l’intera politica industriale nazionale che va rettificata. Fino a quando la politica economica del Paese sarà orientata in prevalenza verso l’Europa, l’industria italiana, e ancora più quella del Mezzogiorno, assumeranno un ruolo industriale tecnologicamente subalterno. Esistono però altri mercati potenziali nei Paesi mediterranei, mercati nei quali le regioni del Mezzogiorno potrebbero avere una posizione privilegiata, dove una maggiore presenza potrebbe aprire la possibilità di esportare mezzi di produzione e tecnologia. Il ruolo di creare un’industria completa nei territori in crisi e di aprire la strada nei nuovi mercati non può essere svolto da imprenditori isolati ma spetta necessariamente al settore pubblico».
Enrico Pugliese «La base per un inizio di discussione sullo sviluppo del Paese parte dalla assoluta necessità di rilancio di una politica di intervento, che si basi anche sull’industria.
La Confindustria a volte afferma che i tassi di disoccupazione ufficiali (quelli dell’Istat) relativi al Mezzogiorno sono gonfiati. La motivazione è duplice: si tratta di “falsi disoccupati” che non vogliono accettare il lavoro disponibile (in loco o a Montebelluna cambia poco); oppure si tratta di “falsi disoccupati”, poiché occupati nel “sommerso”, giustappunto nell’immenso laboratorio meridionale di cui parla Graziani. La prima motivazione è la più odiosa e aggressiva ancorché la più accreditata accademicamente tra gli economisti (teoria della job search o del reservation wage). La seconda è quella che rischia di dividere la politica.
Non c’è dubbio che la maggior parte delle nostre imprese sono povere: povere di tecnologia, di qualità del prodotto e di condizioni di lavoro. Ci era parso che la loro vitalità fosse dovuta solo ed esclusivamente al super sfruttamento della manodopera più o meno familiare. Spesso il ragionamento della lotta al sommerso e al lavoro nero non include un ragionamento sullo sviluppo. La questione era quella di promuovere le condizioni di lavoro, magari attraverso la assunzione della azienda. Ora l’obiettivo è quello dello sviluppo delle imprese magari anche attraverso l’emersione (che, comunque, è vantaggiosa per i lavoratori).
A questo riguardo mi sembra troppo facile il suggerimento di Graziani relativo alla promozione di aziende capaci di “esportare mezzi di produzioni e tecnologie”, verso i Paesi mediterranei. La domanda che io porrei a Graziani è molto semplice: perché e come? Prima di parlare di una nuova Cassa per il Mezzogiorno, si dovrebbe cominciare a parlare di una nuova politica economica e di una nuova politica industriale volta a supportare lo sviluppo delle imprese e la crescita dei territori. Forse sarà necessaria anche una agenzia con il compito di portarla avanti. Ma ora mi sembra urgente definire i termini di questa politica, a cominciare dal ruolo delle infrastrutture, dell’impegno in una nuova politica industriale, etc. Le considerazioni di Graziani sulle infrastrutture, così come quelle sul carattere specioso e reazionario degli argomenti contro la riduzione dell’orario di lavoro, sono corrette. E andrebbero prese in seria considerazione […]. Graziani ha infine ragione nel riproporre la centralità di una politica di sviluppo industriale in un momento di entusiasmi post industrialisti, di destra e di sinistra».
Giacomo Becattini «Partirei da una provocazione. Piuttosto che creare nuove agenzie dovremmo pensare a come aiutare la gente ad aiutarsi da sé. Dovremmo focalizzare l’attenzione su dove, qua e là, ci siano segni di risveglio dell’iniziativa economica, per secondarli e orientarli, aiutandole imprese, sostanzialmente, a crescere sulle loro stesse gambe. La mia tesi è che non si possa avere sviluppo industriale senza sviluppo di vera e genuina imprenditorialità. Con tutti i suoi difettucci, naturalmente, fra cui quello di cercar di guadagnare il più possibile a spese di tutti i contraenti deboli che capitano a tiro. L’idea portante era dunque che solo un’industrializzazione che si misuri veramente con l’alea del mercato è una soluzione “solida” del problema dello sviluppo.
Se avessi ragione in queste affermazioni le misure auspicate da Graziani potrebbero essere valide a realizzare una solida “base industriale”?
Molti dei guai del mancato sviluppo dell’impresa trovano la loro origine precisamente nel fatto che si è cercato, nei passati decenni, di garantire, senza ovviamente riuscirci, troppe situazioni. In un mondo di aspra concorrenza come quello che ci sta dinanzi, l’atteggiamento da promuovere è precisamente quello contrario: a parte alcune situazioni particolari come infanzia, handicap, malattia e vecchiezza, nessuno deve cullarsi nelle garanzie; meglio incitare i cittadini a cercare in sé stessi la propria garanzia.
Occorre un sistema di formazione che offra reali chances a tutti “i capaci e meritevoli”. Lo svolgimento consequenziale di questo tema può incidere già profondamente, io penso, nell’ordine sociale esistente.
Venendo al nocciolo del problema io penso che lo sviluppo di una impresa forte si fondi sulla capacità di aprirsi il varco, nella giungla fittissima della competizione mondiale, a colpi di machete, soffrendo e lottando per ogni singolo, modesto, avanzamento. Mettere in piedi un’impresa che si regge da sé sul mercato mondiale, questo è, semplificando drasticamente, il problema […]. Ma è difficile che una singola impresa – aggiungo che non nasca “forte” – si ritagli una posizione stabile sul mercato mondiale. Un’impresa “normale” è maledettamente esposta alle oscillazioni della congiuntura e quindi è difficilmente capace di “costruirsi addosso” il retroterra socioeconomico, localizzato o meno, necessario ad alimentarne stabilmente lo sviluppo ininterrotto.
Diversa è la situazione per una pluralità d’imprese, tenute insieme da vincoli che non siano soltanto finanziari, ma affondino le loro radici nella costituzione morale dell’uomo. Questo è uno dei paradossi del mercato: i legami apparentemente “forti” dell’interesse, che corrono sul filo della logica dello scambio, sono in realtà “fragili”, nel senso che si possono ribaltare da un momento all’altro, mentre i legami apparentemente “deboli” della parentela, dell’amicizia, della conoscenza, della “simpatia”, del timore – molto spesso legati alla contiguità spaziale o alla comunanza etnica, o religiosa – si sfaldano più lentamente. E si ricostituiscono continuamente in nuove, spesso imprevedibili, forme.
Parte essenziale del giuoco è costituita dal continuo scomporsi e ricomporsi di forme diverse di solidarietà, lealtà, appartenenza, fra gli uomini. Anche per concorrere efficacemente bisogna cooperare.
Il combustibile dello sviluppo non è dato dalle idee, più o meno brillanti, o dalle risorse finanziarie, più o meno consistenti, del progetto, ma dalle aspettative e speranze degli uomini che il progetto considera. Se il progetto s’inserisce su di un movimento che già esiste, secondandolo, correggendolo, orientandolo e aiutandolo, il successo è più probabile.
Occorre una mobilitazione di energie morali, di speranze, di ambizioni, d’invidie, che può cambiare, per vie che l’analisi sociale non ha ancora del tutto esplorato, il quadro psicologico di sfiducia e depressione della comunità.
Evitando di attendere un Messia che non verrà. Non disponendo dello Stato rottamatore, non resta loro altra via che di promuovere il cambiamento continuo, sia scovando le esigenze latenti di consumatori finali e utilizzatori intermedi, sia accelerando l’obsolescenza culturale dei loro prodotti. Non è un’impresa facile, ma è un’impresa possibile, come dimostra l’esperienza.
Come dice la Regina Rossa in “Alice nel paese delle meraviglie”, una volta detta una parola bisogna trarne le conseguenze».
Piero Bevilacqua «Partirei con una riflessione di fondo: l’aumento del Pil, del volume di merci e servizi, non sempre soddisfa i bisogni di prosperità e benessere collettivo.
È possibile oggi liberarsi degli imperativi “metafisici” con cui la macchina economica capitalistica tende a subordinare ogni cosa alle sue logiche, al suo bisogno incontenibile di crescita, e avanzare qualche domanda sui fini e sulla qualità di ciò che un tempo si chiamava sviluppo?
Da sempre le società umane si sono servite dell’economia per i propri fini di aumento del benessere e di emancipazione. Noi siamo entrati in un’epoca in cui gli uomini, le istituzioni, il potere pubblico, sono sempre più a servizio dell’economia. Il mezzo è diventato il fine.
Oggi che da sempre più parti si invoca una crescita economica purchessia si potrebbero immaginare luoghi intorno ai quali si possa tornare a interrogarsi sul come e sul perché dello sviluppo.
Questo potrebbe farci rileggere fenomeni come la criminalità come effetto dell’emarginazione, e il suo sviluppo come conseguenza dei circuiti legali e illegali del mercato. Allora ecco che l’evasione della scuola dell’obbligo può essere riletto come primo anello che rompendosi porta all’emarginazione.
Cosa possono fare insieme i Comuni e il ministero della Pubblica istruzione per debellare questa piaga? Quanti giovani laureati potrebbero essere impiegati nel tutoraggio, nel contatto con le famiglie, nella creazione di doposcuola, per aiutare i ragazzi in difficoltà sul piano del rendimento scolastico? Quale sforzo straordinario si intende perseguire per rafforzare le istituzioni della scuola pubblica nelle realtà più degradate?
Porsi il problema della “redistribuzione” del lavoro, a prescindere da quello che può creare lo sviluppo, sarebbe compito lungimirante. Ma oggi il pensiero sociale è un cane bastonato, legato alla catena della crescita del Pil.
Ma se si vuole creare lavoro durevole, dunque promuovendo impresa dal basso, occorre una più profonda conoscenza della realtà sociale delle varie aree del nostro Paese. Siamo succubi di una forma perversa di modernizzazione che ha annientato le antiche reti di solidarietà e di socialità lasciando città, villaggi, campagne, nella più completa anomia individualistica.
Quali sono i canali attraverso i quali si possa prendere in carico, informare, indirizzare i giovani diplomati e laureati che, nella più completa solitudine, si mettono alla ricerca di un primo lavoro? Proprio questi soggetti potrebbero rivalorizzare le tradizioni imprenditoriali e avviare iniziative economiche che non possono nascere dai singoli, ma hanno bisogno di una concertazione collettiva. Per questo lo sviluppo del Paese non andrebbe pensato come pura espansione della grande macchina della crescita, ma innanzi tutto come sforzo di ritessitura di una società civile che deve ritrovare la propria coesione interna, rinnovare i propri valori e i propri obiettivi civili, pensare all’economia come opera della propria progettualità e della propria cultura, del proprio “saper fare”.
Ai territori,devastati da decenni di urbanesimo senza regole e dall’occupazione selvaggia delle aree,bisogna assegnare un grande compito: restituire la loro fisionomia perduta di “comunità urbane”. Così il potenziamento della democrazia, la qualità della vita e delle relazioni sociali, possono precedere, accompagnare, ispirare lo sviluppo.
I territori hanno bisogno di una concertazione delle proprie iniziative, di supporti di informazione e di organizzazione, di un cervello operativo che pensi e coordini le linee strategiche del suo sviluppo. Non sono gli strumenti pubblici, in sé, i produttori di distorsione e di corruzione: ma la qualità del sistema politico nel quale essi finiscono con l’operare.Ma dove dovrebbero insediarsi le nuove imprese, che cosa dovrebbero produrre, quali materie dovrebbero trasformare? Oggi non sarebbe neppure pensabile uno sviluppo industriale a imitazione dei percorsi storici del Nord. Ma allora occorre chiedersi in che modo utilizzare le peculiari risorse naturali a fini di produzione di beni e servizi e di creazione di lavoro. Come si intendono valorizzare le vaste aree delle colline interne, oggi in gran parte spopolate, ma ricche di zone vergini, capaci di ospitare nuove forme di allevamento, di industria forestale, di turismo escursionistico? Quali strategie si vogliono intraprendere per dotare questi territori di risorse idriche sempre più impensabili a fini civili e industriali? Che cosa si intende fare del mare? Quali economie, produttive e di servizi, possono svilupparsi intorno ad esso e attraverso l’opera di risanamento ambientale dei fiumi e delle coste? Chi si chiede quali nuove attività di trasformazione possono sorgere dal seno delle nostre agricolture?Quante nuove economie possono sorgere dai nostri prodotti naturali?».
Giorgio Cremaschi «Sarebbe miope non vedere gli eccezionali processi di concentrazione del potere industriale che stanno avvenendo nel mondo, spesso a danno del nostro Paese. Non cogliere i segnali che vengono anche dalla riorganizzazione della piccola e media impresa, che è al centro di vastissimi processi di acquisizione dall’estero.
Da noi ci si esalta per uno dei più alti tassi mondiali di telefoni cellulari per abitante e si dimenticano intere aree sottosviluppate del nostro Paese. Da noi liberismo e provincialismo si abbracciano, per cui esperienze originalissime, quali quelle dei distretti industriali, diventano una moda facilona e politicamente assolutoria».
Adriano Giannola «Eviterei di focalizzare l’attenzione sulle lotte per il controllo e la definizione degli strumenti di intervento, spesso caratterizzate dall‘uso astuto e tendenzioso di alcune disinvolte proposte. Partirei invece da questo stimolante confronto prendendolo come un’occasione particolarmente utile per proporre le questioni essenziali, obiettivi praticabili, percorsi e – se proprio c’è bisogno – nuovi strumenti.
Per rispondere a questa sollecitazione occorre porsi un’altra domanda: dove vanno l’economia e la società italiana? Quanto sia complicato e delicato dirlo ce lo mostrano gli interventi di Graziani e Becattini che della stessa evidenza danno letture molto divergenti e valutazioni opposte. E gli interventi di Pugliese e Bevilacqua si dislocano attorno a questa divergenza di fondo mettendo a fuoco importanti articolazioni del problema.
Le potenzialità di industrializzazione delle aree sottosviluppate e l’emergere come sistema in questo quadro evolutivo dell’industria italiana richiede per Becattini la realizzazione delle “condizioni politiche, sindacali, giuridiche e infrastrutturali”, da quil’invito al silenzio, a lavorare e soprattutto – come suol dirsi a Napoli – “a darsi un pizzico sulla pancia”, posizione questa che affonda le sue radici in un’analisi ben più densa e problematica degli esangui, burocratici appelli alla flessibilità del lavoro.
Per Becattini ciò che viviamo come degrado di un’intera società altro non è che il segnale di una svolta possibile; una molla, pronta ora a scattare per lanciare lo sviluppo. Il sottosviluppo di alcuni territori potrebbe essere così risolto agganciando gli stessi ai circuiti dello sviluppo e alle esigenze di consolidamento dei distretti del Centro e del Nord-Est.
La leggera industrializzazione dei territori in crisi di Becattini è la versione in positivo di quel che Graziani definisce l’“immenso laboratorio degradato… della produzione materiale” frutto del processo di emarginazione progredito nel corso degli anni ’90 e che spinge ad un ripiegamento difensivo, con manifestazioni di vitalità che, se consentono di non annegare, mostrano sempre di avere il fiato corto.
È sorprendente che un padre dell’analisi dei distretti venga a raccontarci che la subfornitura di livello più o meno infimo (perché di questo si tratta) potrebbe dar luogo alla nascita di distretti in territori sottosviluppati. A me sembra al contrario che questa sia la strategia migliore per porre una bella pietra tombale sulla prospettiva di uno sviluppo industriale “normale” ancor prima che distrettuale. Delocalizzare nelle aree sottosviluppate fabbriche (fossero anche impianti) di piccole o medie dimensioni o sistemi di imprese da far attecchire nel territorio significherebbe soddisfare le “esigenze” dei distretti. Già, quali esigenze?
Adriano Giannola «Eviterei di focalizzare l’attenzione sulle lotte per il controllo e la definizione degli strumenti di intervento, spesso caratterizzate dall‘uso astuto e tendenzioso di alcune disinvolte proposte. Partirei invece da questo stimolante confronto prendendolo come un’occasione particolarmente utile per proporre le questioni essenziali, obiettivi praticabili, percorsi e – se proprio c’è bisogno – nuovi strumenti.
Per rispondere a questa sollecitazione occorre porsi un’altra domanda: dove vanno l’economia e la società italiana? Quanto sia complicato e delicato dirlo ce lo mostrano gli interventi di Graziani e Becattini che della stessa evidenza danno letture molto divergenti e valutazioni opposte. E gli interventi di Pugliese e Bevilacqua si dislocano attorno a questa divergenza di fondo mettendo a fuoco importanti articolazioni del problema.
Le potenzialità di industrializzazione delle aree sottosviluppate e l’emergere come sistema in questo quadro evolutivo dell’industria italiana richiede per Becattini la realizzazione delle “condizioni politiche, sindacali, giuridiche e infrastrutturali”, da quil’invito al silenzio, a lavorare e soprattutto – come suol dirsi a Napoli – “a darsi un pizzico sulla pancia”, posizione questa che affonda le sue radici in un’analisi ben più densa e problematica degli esangui, burocratici appelli alla flessibilità del lavoro.
Per Becattini ciò che viviamo come degrado di un’intera società altro non è che il segnale di una svolta possibile; una molla, pronta ora a scattare per lanciare lo sviluppo. Il sottosviluppo di alcuni territori potrebbe essere così risolto agganciando gli stessi ai circuiti dello sviluppo e alle esigenze di consolidamento dei distretti del Centro e del Nord-Est.
La leggera industrializzazione dei territori in crisi di Becattini è la versione in positivo di quel che Graziani definisce l’“immenso laboratorio degradato… della produzione materiale” frutto del processo di emarginazione progredito nel corso degli anni ’90 e che spinge ad un ripiegamento difensivo, con manifestazioni di vitalità che, se consentono di non annegare, mostrano sempre di avere il fiato corto.
È sorprendente che un padre dell’analisi dei distretti venga a raccontarci che la subfornitura di livello più o meno infimo (perché di questo si tratta) potrebbe dar luogo alla nascita di distretti in territori sottosviluppati. A me sembra al contrario che questa sia la strategia migliore per porre una bella pietra tombale sulla prospettiva di uno sviluppo industriale “normale” ancor prima che distrettuale.
Delocalizzare nelle aree sottosviluppate fabbriche (fossero anche impianti) di piccole o medie dimensioni o sistemi di imprese da far attecchire nel territorio significherebbe soddisfare le “esigenze” dei distretti. Già, quali esigenze?
Proprio la miglior analisi distrettuale ci direbbe che imprese di questo genere sarebbero del tutto dipendenti da committenti lontani, prive delle parti essenziali per chiamarsi imprese, semplici esecutrici prevalentemente in nero. Aziende che a dir poco non hanno materia grigia, e soprattutto non fanno sistema locale perché gli interessi di chi tira le file di questa “rinascita” stanno a decine o a centinaia di chilometri di distanza.
La mia convinzione è che una linea di intervento fondata su un equilibrato rapporto tra politiche sociali e politiche di ricostruzione dei mercati del Paese possa essere il fulcro su cui far leva per invertire le tendenze al declino e riprendere il sentiero dello sviluppo. Allora, anche le famose imprese esterne avranno interesse a riaffacciarsi nei territori in crisi per “competere e cooperare” con indigeni emersi, trasparenti, affidabili. Non mi addentro sul versante delle politiche sociali che dovrebbero far parte integrante di questa strategia, proverò invece a illustrare aspetti problematici di quella che ho definito “ricostruzioni dei mercati” che più direttamente riguardano le imprese locali.
Per rendere il sistema Paese competitivo occorre una maggiore proiezione internazionale, un miglioramento gestionale in termini di efficacia e di efficienza. Tuttavia, proprio l’analisi dell’andamento deludente della produttività del lavoro conferma la persistenza dei tratti problematici della gestione industriale.
Ne consegue che se non incide dinamicamente proprio sulla produttività, cioè sul fatto che frena queste imprese sul mercato, ogni riduzione salariale serve a farle sopravvivere più che a farle crescere.
Per questi fini più che strumenti o istituzioni “nuovi”, servono ipotesi operative attorno alle quali articolare la risposta al riformismo virtuale e senza strategia».