Il ruolo della certificazione delle competenze nel futuro della formazione

Gruppo di lavoro del prologo istituzionale al Workshop di Capri (15-16-17 maggio 2025)

Elisa Marzinotto – Direzione Formazione Friuli-Venezia Giulia

Il gruppo di lavoro ha rappresentato uno spazio di confronto aperto e costruttivo, in cui si è sviluppata una dialettica vivace e stimolante, soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili legati al sistema di certificazione delle competenze. Il dialogo ha favorito l’emersione di punti di vista differenti, offrendo una panoramica articolata delle esigenze territoriali e delle sfide operative che le Regioni devono affrontare.

Il primo nodo emerso nel confronto riguarda la definizione dei framework di riferimento per l’intera attività formativa. La discussione è partita dalle esperienze già in essere nei diversi contesti, nella consapevolezza che ci sia spazio per tutti e per ciascuno, con ruoli e compiti distinti. Abbiamo condiviso le nostre specificità operative: ad esempio, accanto alla Regione Friuli-Venezia Giulia era presente anche la Regione Campania. È emerso chiaramente come, a differenza dei Fondi interprofessionali – focalizzati prevalentemente sulla formazione continua – le Regioni gestiscano oggetti e funzioni più eterogenei.

Questo ha rafforzato la riflessione sull’importanza dell’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni come cornice unificante. Abbiamo ricordato come, anche tra le 21 Regioni, si sia scelto di fare dell’Atlante un frame di riferimento per facilitare il dialogo e rendere comparabili i nostri sistemi di classificazione. Questo approccio si è rivelato fondamentale per costruire convergenze e rendere più interoperabili le nostre politiche formative, in coerenza con quanto previsto anche dal decreto sulla certificazione delle competenze.

È emersa con forza una consapevolezza: oggi l’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni non rappresenta ancora, per tutti, un riferimento pienamente aderente alla realtà. Questo perché esiste un mondo di attività formative – soprattutto quelle legate ai bisogni delle imprese – che si muove con una velocità molto maggiore, è spesso meno strutturato e richiede risposte tempestive. Un mondo che, per natura, risponde a finalità differenti rispetto all’educazione formale o ai percorsi di certificazione classica.

Il nodo su cui si è sviluppata la riflessione al tavolo è dunque: come far dialogare questi mondi? E, soprattutto, che ruolo può svolgere l’Atlante in questo dialogo?

La proposta emersa è quella di affiancare all’Atlante un framework complementare, pensato specificamente per la formazione continua, capace di rappresentare e valorizzare il contributo di tutti gli attori che operano in questo ambito, a partire dai Fondi interprofessionali fino alle agenzie formative e alle imprese stesse.

Questo framework parallelo, integrabile con l’Atlante, potrebbe favorire l’interoperabilità tra i sistemi, offrendo un punto di contatto comune che non snaturi l’identità di ciascun soggetto ma che, al contrario, valorizzi la ricchezza e la varietà delle pratiche esistenti. Sarebbe un passo avanti fondamentale per costruire un sistema coerente, flessibile e orientato al futuro della formazione.

Un altro elemento emerso come cruciale è stata l’esigenza di avviare una disambiguazione terminologica condivisa, per evitare fraintendimenti che rischiano di ostacolare l’efficacia del sistema. Nel gruppo abbiamo avvertito la necessità di chiarire cosa intendiamo, concretamente, con termini come certificazione delle competenze, attestazione e documento di messa in trasparenza.

Solo partendo da una comprensione comune di questi concetti è possibile costruire soluzioni operative coerenti e condivise.

È stato chiarito che nessun fondo – e, più in generale, nessun ente non titolare delle funzioni pubbliche di certificazione – ha l’intenzione o la legittimità di certificare qualifiche, competenza che oggi è in capo alle Regioni. Tuttavia, è altrettanto evidente che i fondi, le agenzie formative e gli altri soggetti della formazione continua sentono l’esigenza di poter rilasciare, al termine dei percorsi formativi, un documento formale che attesti quanto realizzato, in termini di contenuti, risultati, metodologie, e possibilmente anche di riscontro occupazionale.

Questa esigenza si traduce nella necessità di costruire strumenti che non sconfinino nelle competenze esclusive delle Regioni, ma che valorizzino la trasparenza, la tracciabilità e la spendibilità sociale e professionale dei percorsi realizzati. È proprio in questa direzione che si colloca l’idea di un framework complementare all’Atlante, come strumento abilitante di dialogo tra soggetti diversi, in una logica di integrazione e cooperazione istituzionale.

Raffaele Saccà – Fondimpresa

Nel corso dei lavori del gruppo abbiamo avuto modo di presentare in modo ampio le dinamiche che caratterizzano l’azione dei fondi interprofessionali e si è ritenuto importante soffermarci su alcuni elementi emersi con forza durante il confronto.

In primo luogo, è apparsa evidente l’esigenza di lavorare con determinazione verso una maggiore convergenza, soprattutto sul piano lessicale e concettuale, attraverso la costruzione condivisa di un glossario comune. I partecipanti al tavolo – provenienti da contesti diversi per funzioni, responsabilità e culture organizzative – hanno riconosciuto l’importanza di dotarsi di un linguaggio condiviso, come prerequisito per poter operare efficacemente insieme su obiettivi comuni.

Il glossario, quindi, non è solo un esercizio terminologico, ma una leva strategica: serve a chiarire il senso delle parole che usiamo – come certificazione, attestazione, competenza, trasparenza, profilo – per evitare sovrapposizioni e costruire strumenti interoperabili. In un contesto in cui la pluralità dei soggetti è una ricchezza ma anche una complessità, la condivisione semantica è il primo passo per disegnare un sistema integrato di riconoscimento e valorizzazione delle competenze.

Un altro aspetto emerso con chiarezza durante il gruppo di lavoro è stato il bisogno condiviso di operare una distinzione chiara e funzionale tra i diversi tipi di percorsi formativi e di strumenti di riconoscimento delle competenze.

In particolare, si è discusso approfonditamente sulla differenza sostanziale tra percorsi formali e non formali, evidenziando quanto queste due dimensioni rispondano a finalità, modalità e sistemi di validazione differenti. Abbiamo inoltre approfondito il significato operativo dei termini certificazione, attestazione, validazione, badge, e delle relative implicazioni, soprattutto in riferimento alla formazione continua.

È stato utile, ad esempio, distinguere tra il percorso strutturato di IVC – Individuazione, Validazione e Certificazione delle competenze – che può condurre a una qualifica basata sull’esperienza maturata nei contesti lavorativi anche in assenza di una formazione tradizionale, e quei percorsi brevi e focalizzati, tipici della formazione continua finanziata dai fondi, che spesso si concludono con un’attestazione o con strumenti di rappresentazione digitale come i badge.

Tutti i partecipanti al tavolo hanno condiviso l’importanza di stabilire un quadro di riferimento condiviso, capace di dare dignità e tracciabilità a ogni forma di apprendimento, evitando la sovrapposizione dei ruoli e garantendo coerenza tra strumenti, obiettivi e destinatari. Solo in questo modo sarà possibile costruire un sistema credibile, trasparente e riconosciuto, a beneficio sia dei lavoratori che delle imprese.

È emersa con forza la necessità di avvicinare il sistema della formazione continua – connesso direttamente al mondo del lavoro – ai bisogni concreti delle imprese e degli individui. Bisogni che troppo spesso restano ai margini di un sistema pensato originariamente per il riconoscimento di titoli e qualifiche con validità legale, e che segue processi istituzionali complessi e normati.

Tuttavia, nel contesto attuale, non tutte le esigenze formative e di aggiornamento professionale trovano spazio in questo schema, e ciò sollecita una riflessione sulla necessità di strumenti più flessibili e tempestivi.

La discussione del gruppo – probabilmente una delle prime occasioni in cui si è riunita una rappresentanza così ampia di soggetti con esperienze e ruoli diversi – ha oscillato tra livelli concettuali elevati e casi concreti, offrendo una visione ricca e articolata delle sfide che attendono il sistema. Questa pluralità di prospettive è stata non solo un valore aggiunto, ma anche la prova che serve costruire un linguaggio comune e un framework condiviso per dare concretezza e coerenza all’intero processo.

Alcuni principi condivisi, emersi dal tavolo di lavoro, consentono una sostanziale convergenza attorno ad alcuni elementi fondamentali, che rappresentano il fondamento per uno sviluppo coerente e funzionale del sistema di certificazione delle competenze, soprattutto in relazione alla formazione continua e alle politiche attive per i lavoratori dipendenti. In particolare:

  • principio del riconoscimento reciproco, è necessario che tutti gli attori coinvolti – istituzioni, fondi, regioni, imprese – si vengano incontro e si comprendano, lavorando insieme alla costruzione di un sistema capace di accogliere i linguaggi e le dinamiche del mondo produttivo. Le logiche del job profiling, infatti, spesso non coincidono con quelle dei sistemi di qualifica regionali o normati. Serve un modello che metta in dialogo le esigenze aziendali con le strutture formali esistenti;
  • principio di utilità, il sistema di riferimento deve fondarsi sulla percezione di utilità concreta da parte delle imprese e dei lavoratori. I fondi interprofessionali, in quanto strumenti di convergenza sul mercato del lavoro, devono porsi l’obiettivo di sostenere interventi che siano percepiti come realmente utili, non solo conformi;
  • principio di unità, serve promuovere un sistema integrato e coerente, capace di orientare soprattutto le piccole e medie imprese nel mondo della formazione, garantendo accessibilità e chiarezza. Il principio di unità, tuttavia, dovrà essere ulteriormente declinato e approfondito, perché implica un ridisegno complessivo dei rapporti tra attori e livelli di governance;
  • principio di qualità e indirizzo, è necessario introdurre una riflessione esplicita sulla qualità dei percorsi formativi finanziati: non tutto ciò che è tecnicamente realizzabile dovrebbe essere finanziabile. La selettività deve essere guidata dagli indirizzi strategici delle politiche nazionali, in funzione dello sviluppo dei sistemi produttivi e del rafforzamento della competitività del Paese.

Si è evidenziata l’urgenza di strutturare un sistema multilivello capace di integrare e completare i sistemi esistenti, garantendo interoperabilità e un dialogo continuo tra i soggetti pubblici e privati coinvolti. Solo così sarà possibile rafforzare l’efficacia delle politiche attive del lavoro e assicurare coerenza tra formazione, occupazione e sviluppo industriale.

L’interscambio dei dati è una leva strategica per la trasparenza e la governance del sistema. Tra i temi emersi con maggiore forza al tavolo di lavoro, uno dei più rilevanti è stato quello relativo all’interscambio dei dati tra i soggetti della formazione continua e il Sistema Nazionale di Certificazione delle Competenze. Si è infatti sottolineata la necessità di definire standard condivisi che permettano la circolazione, lettura e interoperabilità delle informazioni, nel rispetto delle specificità dei diversi attori.

In particolare, è stato evidenziato come i fondi interprofessionali rappresentino un bacino di dati e volumi finora poco esplorato a livello nazionale, che può contribuire in modo sostanziale alla trasparenza e al miglioramento della governance del sistema. I numeri sono significativi: ogni anno dai fondi vengono rilasciati oltre 1.200.000 attestati di frequenza, un flusso informativo imponente che oggi non trova ancora una piena collocazione strutturata all’interno dei sistemi di monitoraggio e valutazione.

Il gruppo ha condiviso la convinzione che questo patrimonio informativo debba emergere con chiarezza, non per essere sottoposto a vincoli restrittivi, ma per essere inserito all’interno di un quadro di standard flessibili, capaci di garantire al tempo stesso:

  • la valorizzazione dell’offerta formativa in tutta la sua eterogeneità;
  • la trasparenza nei confronti dei cittadini;
  • il controllo e la qualificazione della spesa pubblica;
  • l’utilità e l’efficacia delle politiche attivate.

L’interscambio dati, dunque, non è solo un tema tecnico, ma rappresenta una leva strategica per la costruzione di una governance realmente integrata e multilivello, che metta a sistema esperienze, numeri, conoscenze e fabbisogni, rendendoli leggibili e orientabili per tutte le componenti del sistema: istituzioni, imprese, lavoratori e territori.

Sabrina Guida – Direttore Welfare Ministero del Lavoro

Mi preme mettere in evidenza una questione centrale: il sistema di certificazione delle competenze, così com’è strutturato oggi, rischia di trasformarsi in un adempimento formale e poco funzionale, aggiungendo complessità burocratica piuttosto che generare valore reale per le persone e le organizzazioni.

Questo rischio è emerso con chiarezza anche nel corso dei dibattiti dei giorni precedenti: la certificazione deve essere uno strumento di valorizzazione, non un obbligo fine a sé stesso. Deve cioè essere in grado di restituire utilità concreta a chi apprende, a chi forma e a chi assume, altrimenti perde il suo significato trasformativo e il suo potenziale strategico.

È necessario, quindi, pensare il sistema di certificazione in chiave generativa, come parte integrante di un ecosistema dell’apprendimento che sappia intercettare e validare le competenze realmente espresse nel lavoro e nei contesti produttivi, anche quando queste si sviluppano in forme non formali o informali.

Il primo nodo fondamentale: fare chiarezza sulla funzione del sistema di certificazione delle competenze. Forse è l’aspetto più rilevante emerso dal confronto, è la necessità non più rinviabile di fare chiarezza sul senso e sulla funzione del sistema di rilevazione e certificazione delle competenze. Serve un’azione decisa di disambiguazione concettuale, che consenta a tutti gli attori del sistema – istituzioni, fondi, enti formativi, imprese – di condividere una visione univoca: a cosa serve il sistema di certificazione? Quali sono le sue finalità concrete?

La riflessione condivisa ha evidenziato che, per essere davvero utile, il sistema non può ridursi a una mera procedura tecnica o a un passaggio burocratico. Deve essere uno strumento abilitante, in grado di:

  • rendere visibili le competenze acquisite nei contesti lavorativi e non formali;
  • facilitare il dialogo tra domanda e offerta di lavoro, soprattutto nei settori in continua trasformazione;
  • garantire qualità, trasparenza e tracciabilità nei percorsi formativi e professionali;
  • e, soprattutto, generare valore riconosciuto per le persone, le imprese e le istituzioni.

Solo a partire da questa chiarezza di obiettivi sarà possibile sviluppare un modello coerente di governance del sistema, integrato con gli altri strumenti delle politiche attive del lavoro, della formazione continua e dello sviluppo territoriale.

Una funzione strategica: agevolare la mobilità professionale e l’adattabilità del lavoratore. In termini operativi, il sistema di certificazione delle competenze trova la sua ragion d’essere più immediata nella capacità di facilitare il passaggio dei lavoratori da un’attività all’altra, in modo ordinato, riconosciuto e valorizzato. In un contesto economico e produttivo in rapida trasformazione, caratterizzato da frequenti transizioni occupazionali, mutamenti tecnologici e nuove forme di lavoro, la mobilità professionale diventa un fattore chiave di competitività, inclusione e resilienza.

La certificazione non è quindi solo uno strumento per il riconoscimento formale delle competenze acquisite, ma una leva per:

  • rendere il capitale umano più adattabile ai mutamenti del mercato;
  • riconoscere i percorsi professionali anche non lineari, spesso discontinui, ma ricchi di apprendimenti;
  • dare valore e spendibilità alle competenze in contesti diversi da quelli in cui sono state maturate;
  • aumentare la trasparenza nei processi di selezione, orientamento e accompagnamento al lavoro.

In questo senso, il sistema di certificazione si configura come un dispositivo abilitante per l’attuazione delle politiche attive del lavoro, nonché come componente essenziale di un mercato del lavoro equo e dinamico.

In un sistema di transizioni rapide ad alto rischio di spiazzamento il cambiamento nel lavoro va governato. Oggi, non ha più senso chiedersi se il cambiamento in atto nel mondo del lavoro sia positivo o negativo: è un dato di fatto. Il mondo sta cambiando e, con esso, cambiano radicalmente le modalità con cui molte attività lavorative vengono svolte. Alcune professioni sono destinate a scomparire, come già accaduto nella storia: basti pensare alle figure del dattilografo o dello stenografo, che nessuno oggi rimpiange.

Tuttavia, la differenza cruciale rispetto al passato è nella velocità del cambiamento. Mentre una volta le transizioni occupazionali si sviluppavano lungo archi temporali più lunghi, oggi i mutamenti sono repentini, talvolta improvvisi. Questa accelerazione comporta il rischio concreto di effetti di spiazzamento, soprattutto per le categorie più esposte all’automazione e alla trasformazione tecnologica.

È quindi fondamentale predisporre strumenti agili e inclusivi di accompagnamento, riqualificazione e riconversione professionale, capaci di attenuare gli impatti sociali di queste trasformazioni, trasformando la discontinuità in opportunità.

Riconoscere le competenze per governare gli effetti delle trasformazioni sul mercato del lavoro. Nel contesto attuale, segnato da trasformazioni tecnologiche accelerate e dall’introduzione diffusa dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi, una parte consistente della forza lavoro rischia di ritrovarsi senza un’attività professionale.

Parallelamente, stiamo assistendo a un aumento esponenziale della produttività individuale, per cui un singolo lavoratore, supportato da tecnologie avanzate, sarà in grado di svolgere attività che in passato richiedevano l’impiego di interi gruppi di persone. Ciò comporta che molti settori potranno progressivamente fare a meno di un’ampia quota di manodopera, innescando un processo di riduzione della domanda di lavoro in alcune aree.

In questo scenario, si apre una fase nuova e complessa del mercato del lavoro, caratterizzata da profondi spostamenti, riconversioni e necessità di adattamento continuo. Per evitare effetti di spiazzamento – ovvero l’esclusione di segmenti di popolazione lavorativa – diventa essenziale disporre di strumenti affidabili per individuare e valorizzare ciò che ciascun individuo sa fare.

Serve dunque un sistema di riconoscimento, trasparenza e certificazione delle competenze, che consenta non solo di orientare meglio le politiche attive del lavoro, ma anche di accompagnare le persone in percorsi realistici di transizione, riqualificazione e reinserimento.

In questo scenario il sistema di certificazione delle competenze assume un ruolo centrale e strategico diventando una leva di continuità professionale. Esso rappresenta uno strumento essenziale tanto per le imprese, chiamate a selezionare profili adeguati ai nuovi bisogni produttivi, quanto per i lavoratori, che devono costruire e aggiornare percorsi professionali in una logica di apprendimento permanente.

La certificazione, infatti, consente al lavoratore di rendere visibili e spendibili le competenze possedute, e allo stesso tempo di individuare con maggiore chiarezza le competenze mancanti, da acquisire per affrontare una transizione professionale efficace. In quest’ottica, il sistema di certificazione non è solo un meccanismo di riconoscimento formale, ma una leva operativa per favorire la mobilità professionale e prevenire l’interruzione dei percorsi occupazionali.

L’obiettivo è costruire un mercato del lavoro più fluido e inclusivo, in cui il passaggio da un’attività all’altra possa avvenire, ove possibile, senza soluzione di continuità, garantendo al tempo stesso produttività per le imprese e benessere per le persone.

Una volta chiarita la finalità del sistema di certificazione delle competenze r definito il perimetro delle competenze da certificare, diventa possibile affrontare con maggiore efficacia la questione cruciale: quali competenze certificare. Infatti, l’assenza di una chiara finalizzazione del sistema comporta due rischi contrapposti, entrambi da evitare:

  • da un lato, la certificazione di competenze irrilevanti o scarsamente spendibili nel mercato del lavoro, che genera solo appesantimenti burocratici;
  • dall’altro, un sottodimensionamento della certificazione, che finisce per trascurare competenze strategiche – soprattutto quelle emergenti o trasversali – e lascia scoperti interi ambiti di riconoscimento.

Per questo, definire con precisione l’utilità del sistema è il prerequisito per una sua implementazione efficace. Solo così sarà possibile costruire una mappa dinamica e coerente delle competenze da certificare, in grado di rispondere sia alle esigenze del tessuto produttivo, sia ai bisogni di crescita e adattamento delle persone.

L’ascolto delle imprese è fondamentale perché il punto di partenza è una corretta rilevazione del fabbisogno necessaria per orientare la certificazione. Lo sforzo principale da compiere è quello di costruire un sistema di certificazione realmente utile e aderente alle trasformazioni del mercato del lavoro. Per farlo, è necessario rispondere a una domanda chiave: quali competenze devono essere certificate e perché?

La risposta non può che partire dall’analisi dei fabbisogni espressi dal sistema produttivo, ovvero dalle competenze che le imprese realmente ricercano per sostenere l’innovazione, la competitività e la transizione dei processi. In quest’ottica, diventa fondamentale sviluppare un meccanismo strutturato di rilevazione dei fabbisogni, che si fondi sull’ascolto diretto e continuo delle imprese.

Solo attraverso un dialogo sistemico tra chi domanda e chi forma, e mediante strumenti di analisi dinamici in grado di cogliere le evoluzioni in tempo reale, è possibile individuare quali competenze debbano essere oggetto di certificazione e costruire un sistema coerente con le esigenze dei territori e delle filiere.

Aprire lo sguardo oltre il perimetro nazionale: il valore dell’analisi comparata e degli scenari tecnologici internazionali

Accanto all’ascolto delle imprese, è altrettanto essenziale sviluppare uno sguardo ampio e informato su ciò che avviene a livello internazionale. Le imprese, specie le piccole e medie, non sempre hanno piena consapevolezza delle trasformazioni globali in atto, né degli scenari tecnologici che stanno ridefinendo le filiere produttive.

Per questo motivo, è necessario attivare un insieme di attori – istituzioni, enti di ricerca, fondi interprofessionali, agenzie formative – in grado di svolgere un lavoro di studio, analisi comparata e previsione strategica. Comprendere quali tecnologie emergano nei mercati globali, quali siano le competenze richieste nei contesti più avanzati, e in che modo queste possano essere adottate anche a livello nazionale, significa dotarsi di una visione anticipatrice, capace di orientare le politiche di formazione e certificazione verso ciò che serve davvero per restare competitivi.

Occorrono quindi partecipazione, confronto e adattabilità che convergano verso un Atlante delle competenze dinamico e inclusivo. La partecipazione attiva al confronto tra attori istituzionali, sociali e produttivi rappresenta una leva fondamentale per comprendere quali attività siano effettivamente richieste nel mercato del lavoro in trasformazione. È proprio attraverso questo scambio continuo che diventa possibile individuare con maggiore precisione le attività da svolgere e, di conseguenza, le competenze necessarie per realizzarle.

In questa prospettiva, la certificazione delle competenze non può che partire da un’attenta lettura delle trasformazioni in corso: si certificano le competenze che abilitano a svolgere attività rilevanti, utili e sostenibili nel tempo.

Negli ultimi anni – e in particolare nel più recente aggiornamento dell’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni – si è lavorato con intensità proprio per migliorare la capacità del sistema di mappare e riconoscere queste attività. Tuttavia, è emersa con forza la necessità di rendere il processo di aggiornamento dell’Atlante più agile, tempestivo e coerente con l’evoluzione dei contesti produttivi, così da assicurare una maggiore aderenza alla realtà e facilitare la transizione verso un modello di governance realmente proattivo e funzionale.

L’Atlante, come nodo connettivo, richiede uno sforzo progettuale per sviluppare un aggiornamento continuativo e veloce e un linguaggio condiviso. L’individuazione di meccanismi efficaci e continui di aggiornamento dell’Atlante del Lavoro, affinché possa realmente svolgere il ruolo di linguaggio comune tra i diversi attori del sistema, è quindi un processo speciale e complesso.

L’Atlante, infatti, può e deve essere inteso come il nodo centrale di connessione tra le varietà territoriali e istituzionali, capace di offrire una base comune per dialogare, progettare e confrontarsi. Tuttavia, nei confronti emersi durante i lavori è stata evidenziata la persistente difficoltà di convergere su un lessico condiviso, soprattutto tra soggetti che operano in contesti e con obiettivi differenti.

Superare questa frammentazione semantica è essenziale per costruire un sistema interoperabile e inclusivo, in grado di valorizzare la specificità dei territori senza rinunciare all’unitarietà del sistema. In tal senso, l’Atlante può diventare uno strumento vivo, dinamico, in grado di raccogliere le trasformazioni in atto e di restituirle sotto forma di riferimenti operativi, utili tanto alla programmazione delle politiche quanto all’attività concreta degli operatori.

L’Atlante come traduttore dei linguaggi territoriali può evitare il rischio del formalismo. Nel percorso verso un sistema efficace di certificazione delle competenze, l’Atlante del Lavoro può assumere un ruolo chiave come “traduttore” tra i diversi linguaggi sviluppatisi sui territori. In un contesto nazionale in cui la frammentazione normativa, culturale e operativa ha generato una pluralità di approcci, l’Atlante rappresenta lo strumento attraverso cui ricondurre questa varietà entro una cornice condivisa e comparabile, senza annullarne la ricchezza.

La sua funzione, però, non si esaurisce nel fornire una tassonomia: esso può diventare un dispositivo di coesione e dialogo tra attori differenti – istituzioni, fondi, enti formativi, imprese – capace di promuovere un linguaggio funzionale alla governance multilivello delle competenze.

Tuttavia, è fondamentale evitare un rischio concreto e già osservato in altri ambiti italiani: quello di trasformare la certificazione in una formalità. Quando la logica della compliance burocratica prende il sopravvento sulla finalità di valorizzazione effettiva delle competenze, si svuota di significato l’intero processo e si rischia di produrre attestati privi di impatto reale sulla vita delle persone e sulle scelte delle imprese.

Il valore della certificazione risiede nella sua capacità di orientare, motivare, mobilitare percorsi di crescita. Per questo motivo è necessario investire nella sua qualità, trasparenza e utilità concreta, affinché non diventi un esercizio sterile, ma uno strumento dinamico di riconoscimento sociale ed economico del sapere esperienziale e formativo.

Dalla formalità alla sostanza: la qualità della prova e l’efficacia del percorso. Per evitare che la certificazione delle competenze si riduca a un mero adempimento formale, è essenziale che la prova attraverso la quale viene rilasciata la certificazione sia autentica e fondata su una verifica reale delle competenze effettivamente acquisite. Come è stato opportunamente osservato durante i lavori di gruppo, è necessario avere il coraggio e la responsabilità di verificare concretamente se la persona possieda davvero le competenze dichiarate.

Affinché ciò avvenga, la prova deve essere progettata con rigore e coerenza rispetto al contesto operativo e professionale a cui fa riferimento, evitando simulazioni astratte o eccessivamente scolastiche. Solo attraverso una valutazione significativa, che rispecchi le reali condizioni in cui la competenza deve essere esercitata, si può conferire valore alla certificazione.

Tuttavia, una prova efficace presuppone un percorso formativo altrettanto efficace: non è possibile certificare con qualità se prima non si è formato con qualità. Per questo motivo, è necessario assicurare che i percorsi formativi siano progettati in modo coerente con gli standard attesi, orientati agli esiti e in grado di attivare l’apprendimento reale, non solo formale.

Solo così la certificazione potrà diventare un autentico strumento di mobilità, riconoscimento e valorizzazione delle persone nel mercato del lavoro, contribuendo alla costruzione di un sistema affidabile, equo e orientato all’innovazione continua.

Questa impostazione comporta un cambio di paradigma: non è la persona a doversi adattare a un percorso formativo astratto, ma è la formazione che deve essere progettata in funzione dell’attività lavorativa concreta, con strumenti, metodi e contenuti coerenti con la pratica professionale.

L’attività lavorativa diventa quindi l’elemento centrale nella formazione continua. Come è stato già opportunamente ricordato da Ugo Calvaruso, la formazione nel mondo del lavoro deve concentrarsi sulla capacità della persona di svolgere in modo efficace una determinata attività professionale. Non si tratta, in questo contesto, di formare la persona in senso ampio, considerando tutte le sue attitudini e potenzialità, ma di rispondere a un’esigenza concreta: verificare e sviluppare la capacità operativa rispetto a compiti specifici richiesti dal contesto produttivo.

In questo senso, la certificazione delle competenze diventa un dispositivo fondamentale solo se ancorato a una valutazione centrata sull’effettiva capacità di svolgere un’attività, in condizioni reali o realistiche, secondo standard condivisi e rilevanti per le imprese, i lavoratori e i sistemi territoriali.

Il senso del sistema di certificazione delle competenze è quindi legato alla sua capacità di ricostruire il “perché”. Tornare al “perché” abbiamo introdotto il sistema di certificazione delle competenze è oggi un’esigenza strategica. Non possiamo limitarci a parlare degli strumenti o delle procedure: dobbiamo recuperare il senso di questa infrastruttura, chiarendo a cosa serve, perché è utile e per chi lo è.

Il certificato, in questo quadro, non è solo un documento amministrativo, ma un riconoscimento pubblico e tracciabile delle capacità acquisite, spesso in contesti non formali, che consente al lavoratore di rendere visibile ciò che sa fare e di agganciare le proprie esperienze a traiettorie professionali future.

Ma c’è una domanda chiave, che interpella l’efficacia stessa del sistema: quanto è consapevole il lavoratore medio della necessità di ridefinire le proprie competenze in funzione delle trasformazioni in corso?

Molto spesso, la risposta è: non abbastanza. Non per mancanza di volontà, ma perché manca un ecosistema abilitante: contesti che aiutino il lavoratore a rileggere il proprio profilo professionale alla luce dei cambiamenti tecnologici, organizzativi e produttivi.

È quindi essenziale potenziare le azioni di accompagnamento, di orientamento e di valorizzazione del capitale esperienziale, per costruire consapevolezza e abilitare le persone a diventare protagoniste del proprio percorso professionale, non vittime passive dei cambiamenti.

In questo senso, il sistema di certificazione non è un fine, ma un mezzo per costruire cittadinanza attiva nel lavoro, sostenere la mobilità occupazionale e ridurre il rischio di esclusione.

La consapevolezza è il primo passo, ma oggi è ancora troppo bassa. A mio parere, il vero ostacolo iniziale al funzionamento efficace del sistema di certificazione delle competenze è rappresentato dal bassissimo livello di consapevolezza da parte dei lavoratori. In molti casi, le persone non hanno chiara la necessità di certificare le proprie competenze, né comprendono l’importanza di fare un’autoanalisi accurata: sapere con lucidità cosa si sa fare veramente e cosa invece è necessario imparare.

Occorre quindi lavorare intensamente sull’informazione e sull’orientamento, aiutando ciascuno a capire quali percorsi possono essere intrapresi per passare da una professione a un’altra. Spesso, la distanza tra due profili lavorativi sembra insormontabile, ma una lettura più approfondita e tecnica delle competenze richieste mostra che bastano alcuni innesti formativi mirati per rendere la transizione possibile e fluida.

In questo senso, il sistema di certificazione delle competenze può diventare uno strumento abilitante potente, in grado di guidare le persone nel proprio sviluppo professionale continuo, con una maggiore fiducia e con obiettivi realistici e raggiungibili.

Un osservatorio per orientarsi nel cambiamento. In collaborazione con INAPP, è attivo un Osservatorio sull’impatto dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, accessibile attraverso una sezione dedicata del sito del Ministero del Lavoro. L’obiettivo è quello di accompagnare le persone e le organizzazioni nei processi di trasformazione, fornendo strumenti informativi e orientativi.

In particolare, per ciascuna professione a rischio di obsolescenza, il sistema propone una serie di professioni affini o emergenti, in modo da offrire percorsi alternativi realistici a chi si trova a dover ripensare il proprio ruolo nel mercato del lavoro.

Il cuore di questo approccio è l’idea che ogni persona possa, con il giusto supporto, leggere meglio sé stessa, identificare le competenze già possedute, capire quali integrare e costruire traiettorie di apprendimento in grado di aprire nuovi sbocchi professionali.

Si tratta di un passo decisivo verso un orientamento consapevole, fondato non solo sull’offerta formativa, ma sulla conoscenza del proprio potenziale e sulla capacità di reagire in modo proattivo alle transizioni in atto.

Un’ultima domanda che Net Forum mi invita a fare riguarda il ruolo della tecnologia: è un ostacolo o una facilitazione? La tecnologia rappresenta una straordinaria leva di facilitazione, non solo perché è il presupposto stesso del cambiamento, ma soprattutto perché costituisce lo strumento principale per affrontarlo in modo efficace e tempestivo.

Attraverso l’analisi dei dati e l’impiego dell’intelligenza artificiale, è oggi possibile leggere in tempo reale le trasformazioni del mondo del lavoro, classificare le competenze richieste e proporre traiettorie di sviluppo personalizzate. La tecnologia, in questo senso, non serve solo a descrivere il cambiamento, ma diventa alleata nell’orientare il singolo individuo, aiutandolo a comprendere meglio se stesso e le proprie possibilità.

Proprio in questa direzione al Ministero stiamo sviluppando una nuova applicazione digitale, pensata per accompagnare la persona in un percorso di autovalutazione. Lo strumento, tramite domande mirate, aiuta l’utente a riconoscere attitudini, inclinazioni e competenze acquisite, proponendo opportunità formative e professionali coerenti con il suo profilo. Un’applicazione intelligente, dunque, che non impone un percorso, ma lo costruisce insieme all’utente, restituendo centralità alla persona all’interno delle dinamiche del lavoro che cambia.

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