Intervento di Massimo Temussi al Workshop di Capri (15-16-17 maggio 2025)
È stato estremamente utile ascoltare le restituzioni dei gruppi di lavoro. Che sia avvenuto in modo consapevole o meno, è emerso chiaramente come tra i diversi temi affrontati — dalla formazione alla certificazione delle competenze, fino alla trasformazione dei processi produttivi — esistano connessioni naturali e profonde. Mentre ciascun relatore esponeva il proprio punto di vista, prendeva forma una trama comune: la necessità di convergenza.
Questa convergenza, da non intendersi come appiattimento ma come capacità di costruire linguaggi e obiettivi condivisi, è apparsa evidente non solo nell’ambito della formazione e della certificazione, ma anche nei processi organizzativi e industriali. E questo non è un caso: questi temi non sono “camere stagne”, ma ambiti interdipendenti che devono essere letti in modo sistemico.
Per questo motivo, vorrei richiamare brevemente due punti focali che ritengo oggi particolarmente importanti, e sui quali orientare una riflessione strategica e operativa per i mesi a venire
Il ruolo del Ministero: ascoltare, valorizzare, agire
Un punto essenziale riguarda il ruolo del Ministero, che non può limitarsi a essere solo un centro regolatore, ma deve diventare uno snodo attivo di ascolto, valorizzazione e attuazione concreta delle riflessioni che emergono da momenti come questi. È necessario che il Ministero assuma la responsabilità di mettere a sistema i suggerimenti operativi che arrivano dagli attori del territorio, dalle imprese, dai fondi interprofessionali e dalle regioni, specialmente in un ambito cruciale come quello della certificazione delle competenze.
Proprio su questo tema, di recente abbiamo promosso un convegno nazionale, che ha rappresentato un momento importante di confronto e apertura. In quell’occasione si è cercato di superare una visione ormai superata, per dirla con franchezza: un approccio statico e anacronistico alla certificazione, distante dalle dinamiche reali del mercato del lavoro. Un mercato che, lo ricordiamo, non è più regionale, né solamente nazionale o europeo, ma è sempre più globale.
Alla luce di questa realtà, il sistema della certificazione deve abbandonare la logica autoreferenziale e aprirsi alla pluralità di metodi, standard e strumenti — da ESCO a EQF, passando per gli strumenti nazionali — in un’ottica di interoperabilità, trasparenza e riconoscimento reciproco. L’obiettivo non è solo valorizzare ciò che si sa fare, ma mettere le persone in condizione di muoversi, adattarsi e crescere in un contesto economico e produttivo in continua evoluzione.
Atlante, ESCO e il paradosso della velocità globale
In questa logica, parlare ancora di repertori professionali a livello regionale rischia di risultare anacronistico, se non addirittura ridicolo. È chiaro che ci sono peculiarità locali – ad esempio in Sardegna ha ancora senso parlare di “operatore minerario” – ma queste eccezioni non giustificano un’impostazione frammentata in un mondo del lavoro che ormai si muove su una scala globale.
Anche a livello europeo, strumenti come Atlante del Lavoro ed ESCO hanno un valore innegabile: forniscono un linguaggio comune, una struttura utile a costruire percorsi formativi e di certificazione allineati all’80% delle competenze esistenti. Ma il punto vero è che il mondo corre a un’altra velocità. Le trasformazioni tecnologiche, l’intelligenza artificiale, la sostenibilità, la digitalizzazione stanno generando professioni nuove, ibride, spesso non ancora classificate.
E allora il problema non è negare l’utilità di Atlante, ma piuttosto rendere questo strumento dinamico, capace di intercettare il cambiamento in tempo reale, anziché inseguirlo. Serve un modello adattivo, in grado di integrare l’innovazione dal basso con la programmazione dall’alto, facendo dialogare le esigenze emergenti dei territori e delle imprese con un sistema nazionale ed europeo in evoluzione.
Governare l’innovazione significa anticiparla, non inseguirla
Chi oggi sta vincendo la sfida globale delle transizioni – siano esse tecnologiche, ecologiche o demografiche – non si limita ad osservare il cambiamento: lo crea. Non lo subisce, lo governa. È questo il nodo cruciale della nostra riflessione.
Cito spesso un caso emblematico: Singapore. Nel 2017, il Ministero del Lavoro ha scelto di scorporare dall’agenzia pubblica Workforce una nuova realtà chiamata SkillsFuture Singapore. Pochi numeri: 143 persone, una piccola isola, e un’ambizione smisurata. Il risultato? Dal 2020 Singapore pubblica il ranking globale delle 10 professioni del futuro. Sette su dieci – ripeto: sette – sono profili professionali ideati direttamente da SkillsFuture, non semplicemente censiti o classificati.
Nel ranking, Singapore è oggi leader globale. Al secondo posto troviamo la Finlandia, che guida l’innovazione in campo digitale in Europa. Seguono Tel Aviv, epicentro delle TLC, e solo al quarto posto – e questa è una notizia significativa – la Silicon Valley, che per oltre vent’anni ha dominato incontrastata.
Questo ribaltamento ci racconta una cosa semplice: non serve essere i più grandi per essere i più innovativi, ma serve una governance agile, strategica, anticipatoria. Serve la capacità di produrre visione, di leggere i segnali deboli del cambiamento e tradurli in politiche attive, sistemi formativi e modelli di certificazione che preparino le persone non solo a trovare un posto nel nuovo mondo, ma a costruirlo.
Un piccolo paese può generare mega trend globali. E l’Italia?
È inquietante, se ci pensiamo: una piccola agenzia governativa di appena 140 persone, in una piccola isola come Singapore, riesce oggi a dettare i trend globali delle professioni. Non segue l’innovazione, la crea. Da sola ha elaborato la maggior parte dei profili professionali emergenti presenti nei ranking mondiali.
Questo dovrebbe farci riflettere: se può farlo Singapore, cosa potrebbe fare l’Italia?
Siamo un paese con un capitale umano straordinario, da sempre creativo per natura, leader nella moda, nel design, nel automotive, nella manifattura avanzata, nei brevetti e nella privativa industriale. Oggi siamo chiamati a mettere a sistema questa creatività, per diventare produttori di futuro anche sulle nuove professioni, soprattutto nel digitale.
Non ci manca il talento. Ci serve una governance agile, coraggiosa, interministeriale, capace di legare formazione, innovazione e produzione. Una governance che trasformi l’Italia in un laboratorio europeo di sperimentazione sulle competenze del domani.
Guardare al futuro, non inseguire il passato: il paradosso italiano sulle professioni emergenti
In Italia esistono aziende straordinarie, anche nel settore aerospaziale, che ancora oggi determinano l’innovazione tecnologica a livello internazionale. Sono realtà che fanno tendenza, che competono ai vertici globali. Eppure, in modo paradossale, non incidono ancora sulle politiche nazionali in materia di competenze e formazione.
Questo è un dato che deve preoccupare.
Mentre discutiamo – giustamente – di certificazione delle competenze e di Atlanti nazionali, dovrebbe esserci già un gruppo di lavoro interistituzionale che guardi avanti:
- una sezione dedicata di INAPP;
- un’unità strategica presso il Ministero del Lavoro;
- una task force con le Regioni;
- un presidio permanente di Sviluppo Lavoro Italia;
che insieme riflettano sulle professioni del futuro, e non solo su quelle già codificate.
Se non iniziamo oggi stesso a costruire scenari previsivi e proattivi, rischiamo di restare prigionieri di sistemi formativi che inseguono il passato, mentre il mondo corre veloce verso modelli produttivi completamente nuovi.
Fondi come sensori di sistema: valorizzare l’intelligenza distribuita del mondo produttivo
Questa è una sfida che possiamo e dobbiamo affrontare. Perché l’Italia ha una ricchezza silenziosa ma concreta: una moltitudine di professionalità già operative, diffuse nei territori e nei settori produttivi. Non occorre inventare nulla, ma ascoltarli, metterli in connessione, valorizzarli.
In questo, il mondo produttivo rappresenta un interlocutore privilegiato, e i fondi interprofessionali sono uno degli strumenti più strategici e trasversali oggi disponibili. Non è un caso che siano stati rievocati in ogni panel del Net Forum: i fondi rappresentano un punto di collante tra imprese, lavoratori, formazione e istituzioni.
È tempo che i fondi interprofessionali e gli enti bilaterali siano riconosciuti non solo come finanziatori, ma come sensori intelligenti del sistema produttivo, capaci di intercettare micro e macro trend emergenti.
Serve una maggiore interoperabilità tra fondi, regioni, enti di ricerca e ministeri, per far sì che l’intelligenza distribuita che già esiste venga sistematicamente raccolta, elaborata e tradotta in programmazione strategica.
I fondi ascoltano le imprese ogni giorno: rendiamoli parte attiva e strutturale di un ecosistema orientato alla pianificazione intelligente delle politiche del lavoro e della formazione.
Convergenza, interoperabilità e nuova visione della formazione continua
Ciò che emerge chiaramente è che il tema della convergenza tra soggetti e sistemi e quello dell’interoperabilità delle politiche e degli strumenti deve diventare l’architrave della nuova governance del lavoro e della formazione. Non solo tra istituzioni centrali e territoriali, ma anche tra mondo produttivo e sistema della formazione continua.
È proprio nel segmento della formazione continua che si gioca una sfida cruciale, soprattutto nelle piccole imprese, che rappresentano la spina dorsale del tessuto economico nazionale. In questo contesto, anche misure non strutturali, come le più recenti azioni promosse dal Ministero del Lavoro, pur non risolutive quanto il Fondo Nuove Competenze, hanno mostrato un potenziale rilevante di risposta rapida e mirata.
Un dato eloquente: il 92% delle domande nell’ultima misura è stato presentato dai fondi interprofessionali. Questo risultato non è stato casuale, ma fortemente voluto e costruito, anche attraverso un lavoro attento di semplificazione e supporto che ha eliminato gli errori di presentazione e ha potenziato la capacità dei fondi di agire come ponti operativi tra le imprese e le politiche pubbliche.
Si rafforza così l’idea che i fondi interprofessionali non sono soltanto strumenti finanziari, ma attori strategici, capaci di leggere il presente, interpretare i bisogni e contribuire alla costruzione delle professioni del futuro.
Aggregare per trasformare: una visione sistemica dei fondi interprofessionali
L’intuizione più semplice, ma al contempo più rivoluzionaria, è stata quella di spostare il baricentro dell’intervento dei fondi interprofessionali: non più come strumenti al servizio di singole istanze aziendali o di servizi HR isolati, ma come leve di sistema in grado di aggregare domanda, formare reti e costruire filiere formative coerenti con le esigenze produttive.
Questa svolta rappresenta una risposta concreta e strutturale alla configurazione del nostro tessuto economico: il 96,6% delle imprese italiane è costituito da piccole e piccolissime realtà, spesso prive di strutture, risorse e competenze interne dedicate allo sviluppo delle professioni e dei fabbisogni futuri. In molti casi, non è un problema di volontà ma di consapevolezza e di strumenti.
Aggregare questi mondi – produttivi, formativi, istituzionali – è l’unico modo per liberare valore latente, generare capitale umano ad alto potenziale e costruire un’architettura abilitante in cui anche le imprese più fragili possano evolvere, innovare e restare competitive.
Questa logica è il cuore del nuovo modello di governance promosso dal Net Forum: trasformare i fondi da erogatori di risorse a catalizzatori di politiche attive condivise, connettendo i bisogni del sistema produttivo ai nuovi modelli di formazione e certificazione, in coerenza con le strategie nazionali ed europee.
Verso un modello di aggregazione multilivello: territori, fondi e sistemi qualificanti
L’efficacia di un nuovo modello di governance passa dalla costruzione di un aggregatore capace di valorizzare la molteplicità degli attori e di generare impatti reali sul territorio. Questo aggregatore non può essere unico né verticale, ma deve assumere la forma di un mix integrato:
- l’attenzione regionale, fondamentale per garantire capillarità e prossimità nei processi di qualificazione;
- i sistemi di qualificazione, che devono penetrare nei contesti locali per accompagnare l’evoluzione dei profili professionali;
- i fondi interprofessionali, che, come sottolineato in uno degli interventi, vengono oggi largamente utilizzati fuori dalle aree interne, trascurando proprio quei territori che ospitano una parte rilevante della manifattura che ha reso l’Italia un riferimento globale.
Eppure, le aree interne continuano a essere culla di eccellenze produttive e meritano strumenti che riconoscano e supportino questa vocazione. Ristabilire un equilibrio territoriale nella distribuzione degli strumenti formativi e delle opportunità diventa quindi una priorità politica oltre che tecnica.
Questo è anche un tema di convergenza tra politiche: tra sviluppo economico e coesione sociale, tra innovazione tecnologica e sostenibilità territoriale.
Non dimentichiamo che oggi il tema dominante è l’intelligenza artificiale, così come nei due anni passati è stato il PNRR. Se vogliamo che l’IA diventi realmente un acceleratore di progresso e non un nuovo fattore di disuguaglianza, è necessario che tutti i processi – inclusi quelli formativi, certificativi e di orientamento – siano vivi, adattivi e territorialmente inclusivi.
AI e lavoro: tra previsioni catastrofiche e realtà produttiva
Nel 2013, Michael Osborne e Carl Benedikt Frey, ricercatori dell’Università di Oxford, hanno pubblicato uno studio diventato rapidamente un riferimento globale: “The Future of Employment”. In esso si ipotizzava che l’intelligenza artificiale e l’automazione avrebbero portato, entro pochi decenni, alla scomparsa di milioni di posti di lavoro. Quel lavoro fu il primo a trasformare il timore tecnologico in un mantra internazionale, ripreso e amplificato da policy maker, economisti e media, tanto da influenzare il World Economic Forum e la narrativa dominante per un decennio.
Dal 2013 a oggi, tuttavia, le previsioni più catastrofiche non si sono avverate. Anzi, ciò che si osserva è un bilancio molto più sfumato: se da un lato l’intelligenza artificiale ha ridotto la domanda in alcune professioni routinarie, dall’altro ha generato milioni di nuovi impieghi legati a nuovi servizi, modelli organizzativi, filiere digitali e professioni ibride.
Numerose pubblicazioni – tra cui quelle di Mariana Mazzucato, docente al University College London e riferimento per le politiche industriali europee – hanno messo in discussione l’assunto secondo cui l’innovazione tecnologica si traduce automaticamente in disoccupazione strutturale. Al contrario, si inizia a riconoscere che il vero nodo non è la quantità di lavoro, ma la qualità, la distribuzione e la capacità del sistema educativo e formativo di accompagnare la transizione.
Ciò che la letteratura più recente evidenzia, infatti, è che la sfida non sta tanto nella tecnologia in sé, ma nella governance dei processi di transizione: come riorganizzare la conoscenza, come formare nuove competenze, come gestire il disallineamento temporale tra innovazione e adattamento sociale.
In sintesi: nessuno ha veramente “azzeccato” le previsioni, perché si è sottovalutato il potere adattivo delle imprese, delle persone e, soprattutto, della tecnologia stessa, che non è solo distruttiva ma anche abilitante.
La verità sta nel mezzo, e proprio per questo oggi è necessario abbandonare le letture polarizzanti e adottare un approccio pragmatico e sistemico: l’intelligenza artificiale va governata, non temuta; indirizzata, non subita.
L’Intelligenza Artificiale non distrugge i mestieri, ma ne trasforma la natura
Contrariamente alla narrazione dominante che per anni ha descritto l’intelligenza artificiale come una forza distruttiva per l’occupazione, i dati più recenti confermano una realtà più articolata: l’IA non ha eliminato i mestieri, ma ne ha modificato radicalmente le componenti, spostando intere fasi di attività – soprattutto quelle più ripetitive o a basso valore aggiunto – dai lavoratori alle macchine.
Oggi, molte delle operazioni manuali che prima venivano svolte da operatori umani sono affidate ad algoritmi, sensori intelligenti o robot dotati di vista artificiale. Si pensi, ad esempio, all’automazione nei centri di smistamento logistico, dove l’“operatore Amazon” tradizionale è stato sostituito da sistemi intelligenti di riconoscimento visivo e tracciamento biometrico. Ma questo non ha portato a una semplice cancellazione del lavoro: ha generato una nuova domanda di figure professionali con competenze avanzate, in grado di governare, progettare e ottimizzare tali tecnologie.
Uno degli studi più citati a livello globale, pubblicato da Sig Miller e MT nel 2020, ha evidenziato come l’intelligenza artificiale abbia innescato una crescita del 550% dei profili “Professional” in soli quattro anni. Non si tratta solo di sviluppatori o data scientist: si tratta di nuove figure ibride, capaci di integrare la tecnologia all’interno di processi produttivi complessi, trasformando radicalmente le modalità operative delle imprese.
In sostanza, l’IA non ha cancellato l’occupazione, ma ha trasformato la richiesta di competenze, spostando il baricentro del valore dal compito esecutivo al sapere progettuale e gestionale. Questo rende ancora più urgente un ripensamento sistemico della formazione continua, che deve diventare lo strumento strategico per accompagnare le transizioni professionali e garantire la competitività dei territori e l’inclusione dei lavoratori.
Ripensare il ruolo dell’operatore dei Centri per l’Impiego nell’era dell’Intelligenza Artificiale
Oggi appare evidente quanto il profilo dell’“operatore del Centro per l’Impiego”, così come attualmente concepito, sia inadeguato rispetto alle sfide di un mercato del lavoro profondamente trasformato. Il titolo stesso, “operatore del CPI”, è diventato una categoria vuota, generica, priva di significato operativo nel nuovo contesto tecnologico. Non identifica più una funzione strategica, né garantisce una reale capacità di supporto personalizzato all’utente.
In un mondo del lavoro sempre più dominato da strumenti digitali e da tool di intelligenza artificiale, è indispensabile verticalizzare e specializzare il profilo dell’operatore, spostando l’attenzione dalle mere funzioni amministrative alla capacità di offrire consulenza, orientamento e accompagnamento personalizzato. Serve una nuova generazione di operatori dotati di competenze digitali avanzate, in grado non solo di ascoltare e comprendere il bisogno dell’utente, ma anche di orientarlo nell’utilizzo pratico di strumenti innovativi già disponibili sul mercato.
Strumenti come ChatGPT, ma anche molti altri tool settoriali – spesso più performanti e specifici – possono oggi diventare alleati preziosi nella costruzione di un percorso professionale o formativo, nella stesura di un curriculum, nella simulazione di un colloquio o nell’individuazione di percorsi di aggiornamento mirati. Tuttavia, senza operatori competenti che sappiano integrare questi strumenti nell’interazione con il cittadino, il potenziale dell’innovazione rimane inespresso.
Per questo è necessario che la governance delle politiche attive del lavoro investa nella ridefinizione del ruolo e nella formazione degli operatori pubblici, rendendoli facilitatori dell’innovazione e mediatori di senso, capaci di tradurre le opportunità della transizione digitale in strumenti concreti di empowerment per le persone.
Sui processi produttivi e la convergenza pubblico-privato: il potenziale inespresso dell’interoperabilità
In questo momento storico, la convergenza tra sistema pubblico e privato – Ministero del Lavoro, Regioni, Sviluppo Lavoro Italia, INAPP, fondi interprofessionali, imprese, enti di formazione – può rappresentare un’occasione strategica senza precedenti. Se si riuscisse finalmente a valorizzare appieno le competenze e le capacità analitiche già presenti nei diversi soggetti istituzionali e operativi coinvolti, il sistema nazionale delle politiche del lavoro potrebbe compiere un vero salto di qualità.
Quello che finora è mancato è proprio l’interoperabilità effettiva delle risorse, degli strumenti e dei dati a disposizione. Ne abbiamo parlato nei tavoli, lo abbiamo ipotizzato spesso, ma mai davvero realizzato. Oggi però è il momento giusto per farlo, e in questi due giorni di lavoro abbiamo una dimostrazione concreta che “si può fare”.
Lo abbiamo dimostrato anche con la nascita del SIISL, il Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa. Quando abbiamo scritto il decreto che lo istituisce – a partire proprio da quella parola, SIISL – in pochi ci credevano davvero. All’interno del Ministero in molti erano scettici, richiamando i fallimenti precedenti: Clic lavoro, le collaborazioni con Pôle Emploi (Francia), progetti rimasti incompiuti.
Eppure, contro ogni pronostico, in meno di tre mesi SIISL è stato attivato, e con un investimento 50 volte inferiore rispetto a quanto previsto nei tentativi precedenti. Abbiamo saputo integrare in modo efficace anche piattaforme complesse come quelle dell’INPS, tradizionalmente considerate inaccessibili, grazie a una regia politica chiara, un mandato determinato e una cultura dell’azione orientata all’impatto e non alla burocrazia.
Questa esperienza dimostra che la trasformazione digitale delle politiche attive non è una chimera, ma un obiettivo concretamente raggiungibile, se si lavora in modo sinergico, con visione sistemica e superando la frammentazione delle competenze.
Valorizzare il patrimonio informativo per una convergenza reale tra pubblico, privato e sociale
Il vero valore di quanto stiamo dicendo oggi sta nella consapevolezza che i dati e le informazioni esistono già: il tema non è la loro disponibilità, ma la capacità di metterli a sistema. La sfida è costruire una governance intelligente che consenta un utilizzo strategico delle conoscenze, salvaguardando le autonomie dei singoli attori, siano essi pubblici, privati o appartenenti al mondo del terzo settore.
Non sempre è necessario unificare i sistemi o sovrascrivere le specificità: non serve un unico “sistema globale”, ma un’architettura interoperabile che rispetti le differenze e valorizzi la complementarità. Ogni soggetto può continuare a operare con il proprio linguaggio, la propria struttura, purché sia in grado di condividere le informazioni essenziali in modo coerente e trasparente.
Questa è la vera convergenza di cui abbiamo bisogno oggi: una convergenza socio-lavorativa, dove ciascun attore – pubblico, privato, sociale – partecipa alla costruzione di un ecosistema condiviso, finalizzato alla generazione di valore, occupazione di qualità e sviluppo dei territori.
Interoperabilità non significa uniformare, ma connettere con intelligenza. Significa mettere in comune ciò che si sa, per permettere a ogni soggetto di utilizzare quello che davvero gli serve per agire meglio, in tempi più rapidi, con maggiore impatto.
Oltre le barriere culturali: verso una reale collaborazione pubblico-privato
Fino a pochi anni fa, parlare di collaborazione tra pubblico e privato sembrava quasi un’eresia. In alcune realtà regionali, l’idea stessa avrebbe suscitato ironia o addirittura rigetto. Prevaleva una cultura della separatezza, in cui ciascun attore – in particolare nel pubblico – si trincerava nella propria posizione, ritenendo autosufficiente il proprio modello, rivendicando l’esclusività del servizio pubblico, talvolta con diffidenza verso ogni possibile apporto esterno.
Oggi possiamo sorridere di quella visione, ma non dobbiamo dimenticare che quelle resistenze esistono ancora, sotto forma di pregiudizi radicati o modelli organizzativi rigidi. C’è ancora chi, nel settore pubblico, guarda al privato con sospetto, dimenticando che è proprio il sistema produttivo privato a generare la ricchezza che sostiene i servizi pubblici, inclusi gli stipendi dei dipendenti.
Superare questa frattura culturale è una condizione necessaria per costruire una governance moderna, fondata su alleanze funzionali, capaci di integrare competenze, risorse e visioni. Il futuro delle politiche attive, della formazione e dello sviluppo dei territori passa per un’alleanza virtuosa e non ideologica tra tutti gli attori del sistema.
La sfida irrisolta: trasformare la collaborazione pubblico-privato da eccezione a motore sistemico
Accanto alle resistenze culturali, persiste una sottocultura amministrativa e un impianto normativo ancora inadeguato ad accogliere pienamente una vera collaborazione tra pubblico e privato. In molti casi, il sistema degli appalti si è rivelato più un ostacolo che un’opportunità, ingessando l’azione amministrativa in procedure che scoraggiano l’innovazione e frenano le sinergie.
Quella che dovrebbe essere una leva strategica per lo sviluppo, si riduce spesso a un esercizio di mera esecuzione formale, incapace di valorizzare la ricchezza progettuale e relazionale che una cooperazione autentica tra attori pubblici e privati può generare.
Il salto di qualità è ancora da compiere: occorre un cambio di paradigma che vada oltre la logica della mera fornitura di servizi, e riconosca nella collaborazione un fattore abilitante per la creazione di valore condiviso, nel rispetto dei ruoli e con l’obiettivo comune di costruire un sistema più equo, reattivo e orientato all’impatto sociale ed economico.
Il dialogo competitivo: un’opportunità ancora inibita da tabù e timori
Persistono, ancora oggi, tabù profondi nel rapporto tra pubblico e privato, spesso alimentati da una percezione diffusa di rischio legale e reputazionale, soprattutto in ambiti delicati come gli appalti. Ne è emblema il dialogo competitivo, uno strumento previsto dal Codice degli Appalti ma pressoché inutilizzato.
Come osservato in più contesti, nessuno sembra avere il coraggio di attivarlo, non perché manchino i presupposti tecnici o giuridici, ma perché prevale la paura di subire controlli, indagini o fraintendimenti da parte della magistratura o della stessa opinione pubblica. Nel dubbio, si evita, anche a costo di rinunciare a una leva potenzialmente strategica per favorire innovazione, co-progettazione e soluzioni su misura.
Serve dunque una riflessione normativa e culturale per trasformare il dialogo competitivo da strumento percepito come pericoloso a dispositivo sicuro, trasparente e tracciabile, capace di garantire qualità, apertura e responsabilità. È solo così che si potrà superare la sindrome del sospetto e abilitare una vera alleanza pubblico-privato, nel rispetto delle regole ma al servizio dell’interesse collettivo.
Il volano del cambiamento passa dalla convergenza tra pubblico e privato
Ad oggi, non siamo ancora riusciti a realizzare pienamente quella convergenza pubblico-privato che rappresenta, a tutti gli effetti, il vero volano del cambiamento. È un dato ormai evidente: il settore pubblico da solo non riuscirà a spendere tutte le risorse disponibili, né a mettere a terra in modo efficace le politiche, soprattutto in ambiti complessi e dinamici come la formazione e la certificazione delle competenze.
Questo è uno dei temi più ricorrenti emersi nei lavori di questi giorni. Ed è proprio nell’ambito delle competenze e della loro valorizzazione che si rende necessaria un’azione comune e integrata, capace di superare frammentazioni, resistenze culturali e limiti normativi.
Il tempo delle soluzioni è adesso. Come ci siamo detti stamattina in un momento di confronto informale — passeggiando per le strade di Capri — molte delle soluzioni sono già visibili, vicine, dietro l’angolo. Si tratta solo di avere il coraggio di riconoscerle, metterle a sistema e attuarle con lucidità, visione e spirito di cooperazione.
Questo intervento evidenzia una problematica centrale: la scarsa consapevolezza e conoscenza degli strumenti digitali disponibili da parte degli operatori dei centri per l’impiego. Sviluppo Lavoro Italia ha sottolineato che, se si somministrasse un’indagine a livello nazionale, probabilmente meno del 10% degli operatori saprebbe effettivamente di cosa tratta la piattaforma LEP NEET (Livelli Essenziali delle Prestazioni per i NEET).
Eppure basterebbe esplorarla anche superficialmente per rendersi conto della sua utilità: all’interno ci sono strumenti concreti, informazioni strategiche, funzionalità che aiutano a comprendere, orientare, progettare percorsi. Il punto è che la piattaforma esiste, è ricca di contenuti utili, ma non è conosciuta né utilizzata come dovrebbe. Il nodo, dunque, non è solo tecnologico ma culturale e organizzativo.
Questo passaggio pone l’accento sulla necessità urgente di:
- formare adeguatamente gli operatori pubblici sugli strumenti esistenti;
- diffondere una cultura digitale orientata all’uso effettivo dei dati e delle piattaforme;
- rafforzare le competenze metodologiche e strategiche del personale dei CPI per una presa in carico moderna ed efficace delle persone.
Il vero problema è che non stiamo riuscendo a condividere queste risorse in un ambiente comune. Forse siamo sommersi da informazioni, e-mail, messaggi WhatsApp. Ma ora è arrivato il momento di fare sintesi. Serve una piccola porta sul futuro che centralizzi alcune attività e diventi sistema.
Occorre superare la logica delle “sicurezze” autoreferenziali e iniziare a lavorare insieme per costruire le basi del Fascicolo del Lavoratore. Lo abbiamo dietro l’angolo: abbiamo già tutte le informazioni e le tecnologie necessarie.
Il Dipartimento per la Trasformazione Digitale sta già spingendo su modelli come il fascicolo sanitario e il fascicolo del cittadino. L’interoperabilità tra piattaforme è tecnicamente possibile. Ora dobbiamo sfruttare tutto ciò che abbiamo per costruire un sistema orientato al futuro.
Cerchiamo di lavorare insieme per costruire una base solida verso la realizzazione del Fascicolo del Lavoratore. È un obiettivo ormai a portata di mano: abbiamo già a disposizione tutte le informazioni necessarie. Inoltre, possiamo contare sul lavoro del Dipartimento per la Trasformazione Digitale, che sta spingendo fortemente in questa direzione, così come ha già fatto con il Fascicolo Sanitario Elettronico e il Fascicolo del Cittadino.
Le piattaforme oggi sono tecnicamente interoperabili, e questa condizione ci consente di immaginare – finalmente – un vero sistema di convergenza. La sfida è proprio questa: mettere a frutto tutti gli strumenti e le tecnologie esistenti per costruire una base informativa condivisa, capace di orientare le scelte, migliorare i servizi, e soprattutto progettare con intelligenza il futuro del lavoro.
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