Impiego femminile nel Terzo settore, spiragli di una svolta per la parità di genere

di Maria Pia Tucci

Quanto è significativo l’apporto del Terzo settore in Italia in termini occupazionali? Quanto contribuisce a moderare il divario di genere nel mondo del lavoro? Fare il punto su queste due domande equivale a provare a chiarire come si muove in Italia un settore che produce 80 miliardi di euro l’anno, il 4,4% circa del Pil. Al contempo, significa tracciare una traiettoria di tipo economico-sociale e anche di impatto culturale sul ruolo cruciale del Terzo settore nel Paese.

Il dato dell’ultimo rapporto Istat ha rilevato 360.061 aziende/enti non profit che, complessivamente, impiegano 919.431 dipendenti. Tra il 2021 e il 2022 anche se diminuisce dello 0,2% il numero di enti, aumentano del 2,9 i dipendenti. Già queste percentuali sono indicative della ricaduta in termini di occupabilità. Anche la suddivisione geografica del dato restituisce una fotografia molto interessante. Lo stesso report indica infatti che le istituzioni non profit crescono maggiormente al Sud, segnando un +2,0%, e nelle Isole con un +1,1. Una lieve flessione viene invece rilevata nel Nord-Est con un -1,2%, nel Nord-Ovest -1,0 e al Centro -0,3. Campania, Calabria, Sicilia sono le regioni che più hanno incrementato le percentuali, rispettivamente del 3,7, 3,3 e 2,3%, mentre sono in decremento la provincia autonoma di Bolzano -7,2%, il Molise -6,1 e la Basilicata -3,4. 

Piuttosto eterogenea è la distribuzione dei dipendenti per forma giuridica: il 53,5% è impiegato dalle cooperative sociali, il 18,6 nelle associazioni e il 15,6 nelle istituzioni non profit con altra forma giuridica. 

In assenza di altre ricerche sistematiche e in attesa dei dati del nuovo Censimento permanente delle istituzioni non profit Istat che, partito il 14 marzo, terminerà il 25 ottobre, per indagare il Terzo settore in termini di lavoro, punto di riferimento possono essere alcuni studi che, seppure parcellizzati, risultano più aggiornati. 

L’analisi di Job4good

Scorrendo Job4good, una delle piattaforme più cliccate in Italia, interamente dedicata al matching tra domanda e offerta di lavoro nel Terzo settore, si possono trovare numeri che raccontano una media di oltre 240 offerte di lavoro specializzato e 10.830 posti vacanti per 1.841 aziende ed enti registrati. La geografia di Job4good è rappresentativa in progress di quello che si muove in Italia in termini di ricerca, da parte degli enti non profit, anche delle professionalità: dal project manager all’esperto ammnistrativo, alle figure occupabili nel settore marketing e comunicazione, fino all’operatore specializzato, che sia educatore, psicologo o assistente sociale.

Dalla stessa piattaforma si accede a uno studio promosso da Confcooperative Roma e realizzato dall’osservatorio Job4good con il contributo della Camera di Commercio di Roma. Pubblicato nel 2024, il report definisce il «Fabbisogno occupazionale e tecnologico per lo sviluppo interno delle cooperative» e si focalizza su «Bisogni, sfide e nuove soluzioni per le imprese cooperative». Un’indagine mirata all’analisi di 50 cooperative, eterogenee per dimensione e collocazione geografica, che traccia un quadro approfondito sul presente e lancia segnali per le sfide del futuro disegnando strategie, innovazioni ed evoluzioni. Digitalizzazione, coinvolgimento dei giovani under 35, migliorare le condizioni lavorative e offrire benefit, rafforzare la collaborazione e il networking, comunicare l’identità e l’impatto sociale delle cooperative sono le «considerazioni per il futuro» con cui si chiude il report di Job4good. 

Un analisi sul lavoro sociale

Chi sono i professionisti e le professioniste del lavoro sociale? Anche in questo caso manca un’indagine continuativa, approfondita e trasversale che coinvolga tutto il mondo del Terzo settore. Questo nonostante il rendiconto di genere, il bilancio sociale prima e il bilancio di sostenibilità da qualche anno siano i tre asset che fanno da cartina tornasole per misurare l’impatto socio-economico, ambientale e culturale delle aziende profit e non profit. 

Un dato a cui fare riferimento è stato raccolto da Open cooperazione nel 2023 e riguarda l’impiego nel settore della cooperazione e del volontariato: in questo settore in Italia sono impegnate 4.725 persone, 33,25% uomini e 66,75 donne. Altra finestra aperta sulla condizione del mondo del lavoro femminile è il rendiconto di genere diffuso a febbraio dal Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps: nel 2023 il tasso di occupazione femminile in Italia si è attestato al 52,5%, rispetto al 70,4 degli uomini, con le assunzioni femminili che hanno rappresentato solo il 42,3% del totale. E allora, tornando alla domanda iniziale, quanto conta il Terzo settore nel disinnesco del gender gap nel mondo del lavoro? «Il divario di genere nella partecipazione al mercato del lavoro è un fenomeno complesso in cui si intrecciano dimensioni strutturali e culturali. Alla base troviamo la persistenza di una divisione del lavoro che continua ad attribuire alle donne la responsabilità primaria della cura – spesso non riconosciuta né retribuita – così come la diffusione di stereotipi di genere che influenzano le scelte formative e professionali.

Inoltre, l’occupazione femminile si connota per un maggior grado di precarietà e una minore qualità del lavoro, elementi che possono incidere sulla probabilità di restare stabilmente nel mercato. A questo si aggiungono la carenza di servizi di conciliazione e la presenza di culture organizzative ancora poco attente al tema», spiega Barbara Poggio, docente del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale e prorettrice dell’Università di Trento.

Verso una maggiore equità

E da dove si può iniziare per portare maggiore equità? «È necessario intervenire su più fronti: sia sul piano della trasparenza salariale, sia su quello dell’organizzazione del lavoro», sostiene la professoressa Poggio: «Servono inoltre investimenti strutturali nei servizi pubblici di cura, per sostenere la continuità lavorativa e favorire una più equa condivisione delle responsabilità familiari. Ma ridurre il divario retributivo significa anche interrogarsi sulla qualità del lavoro femminile: le donne sono sovrarappresentate in impieghi precari, part-time spesso non scelti, e con minori possibilità di progressione professionale. Solo agendo in modo integrato su questi livelli sarà possibile affrontare il gap di genere nella sua complessità». 

Anche a fare le spese in termini di instabilità occupazionale, secondo l’Inps, è soprattutto il genere femminile: 18% delle assunzioni di donne sono a tempo indeterminato a fronte del 22,6% degli uomini. Solo il 21,1% dei dirigenti è donna, mentre tra i quadri il genere femminile rappresenta il 32,4. Eppure il livello di istruzione vede il 52,6% di donne diplomate e il 59,9 laureate. «Nonostante le donne superino gli uomini sia tra i diplomati che tra i laureati – commenta Barbara Poggio – si conferma la persistenza del cosiddetto soffitto di cristallo, ovvero ostacoli invisibili che limitano l’accesso delle donne ai ruoli apicali. Le carriere femminili continuano a essere più discontinue e lente di quelle maschili a causa dei fenomeni già citati, a cui si aggiungono gli stereotipi sulla capacità di leadership». 

Tutta questa analisi ci aiuta ad arrivare alla domanda cardine: la differenza, anche in termini di parità di genere, potrebbe farla il Terzo settore? «Certamente rappresenta uno spazio con maggiori opportunità di accesso e partecipazione per le donne – afferma la professoressa Poggio – sia sul fronte del lavoro retribuito che del volontariato. Da un lato questo è un segnale positivo, che mostra come ambienti più cooperativi, orientati alla cura e alla relazione, riescano maggiormente a valorizzare il contributo femminile. Al contempo, però, c’è il rischio che la presenza femminile sia data per scontata o naturalizzata, in continuità con la tendenza ad associare i compiti di cura, e anche il lavoro gratuito, alla componente femminile».

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