Le competenze non abitano i cataloghi: la certificazione come processo, e non strumento

di Ugo Calvaruso

In un Paese come l’Italia, che fatica a trasformare la crescita in sviluppo sostenibile, parlare di competenze significa parlare di futuro. Ma non basta il lessico delle policy, né la rincorsa ai repertori tecnici. Il nodo è culturale: le competenze non sono oggetti da elencare e la certificazione non è un timbro, ma una pratica che può assumere senso solo se calata nella vita reale di chi apprende e lavora. In questo articolo partiamo dai dati, non per chiudere il discorso, ma per aprirlo: perché dietro la crescita del PIL si nasconde una stagnazione della produttività; dietro l’aumento dell’occupazione, si celano forme di vulnerabilità. Serve, perciò, un nuovo paradigma, capace di riconoscere la storicità delle competenze, la necessità di strumenti condivisi e il ruolo generativo della formazione. È da qui che possiamo ripensare la certificazione come infrastruttura relazionale per affrontare davvero il mismatch.

Una crescita senza sviluppo: un nodo tutto made in Italy 

Nel 2023, l’Italia ha registrato una crescita del PIL dello 0,9%, superando Francia e Germania, risultando seconda solo alla Spagna tra le principali economie europee【(ISTAT 2024, p. 17). A prima vista, potrebbe sembrare un risultato incoraggiante. Ma dietro a questi numeri si cela un nodo strutturale: la produttività del lavoro è rimasta sostanzialmente ferma. Tra il 2000 e il 2023, l’apporto della produttività alla crescita è stato di appena 1,5 punti percentuali, a fronte di un aumento occupazionale che ha inciso per oltre 13 punti【(ISTAT 2024, p. 57). In altre parole, si lavora di più, ma non meglio. È il paradosso di un sistema che cresce in quantità ma non si trasforma in qualità.

Questa dinamica si riflette anche nella composizione degli investimenti. L’Italia continua a puntare su settori tradizionali, come le costruzioni, spesso trainati da incentivi fiscali. Restano invece sottodimensionati gli investimenti in beni immateriali, innovazione e capitale umano【(ISTAT 2024, p. 60). In un contesto globale segnato da tensioni geopolitiche, rallentamenti commerciali e pressioni ecologiche e digitali【(ISTAT 2024, pp. 15–16), questa miopia rischia di ridurre ulteriormente la competitività del Paese. Per questo, la formazione non può più essere considerata un costo da contenere: è un investimento strategico. È la chiave per costruire sistemi capaci di trasformarsi, di cambiarsi attraverso l’apprendimento: nuove abitudini, nuovi comportamenti, nuove associazioni, e così via.

Ma che cosa vuol dire, concretamente, investire in formazione? Pensiamo a un barista. Preparare un caffè è un gesto semplice, ma non meccanico. Cambia a seconda del luogo, dell’ora, del cliente. In una stazione è rapidità, in un centro storico è accoglienza, in un coworking è relazione. Se formiamo il barista solo per “fare un buon espresso”, otteniamo un esecutore. Se lo formiamo per leggere i contesti, riconoscere i bisogni, valorizzare la propria esperienza, otteniamo un professionista. È qui che la formazione mostra il suo vero valore: nel rendere le competenze non solo tecniche, ma situate, relazionali, strategiche, e non sostituibili velocemente al cambio della tecnologia. Ed è da qui che deve partire un nuovo approccio alla crescita: se vogliamo uno sviluppo vero, non basta crescere. Bisogna cambiare. Altrimenti ci troveremo sempre dinanzi a questo squilibrio tra quantità e qualità, che emerge anche nei dati sull’occupazione e sull’inadeguatezza del nostro sistema formativo.

Quando l’occupazione non basta: il paradosso italiano e il ruolo sistemico della formazione 

Se la crescita non si traduce automaticamente in sviluppo, nemmeno l’aumento dell’occupazione può essere letto come indicatore autosufficiente di benessere. Tra il 2019 e il 2023, l’occupazione in Italia è cresciuta del 2,3% e le ore lavorate del 3,8%, ma nello stesso periodo la produttività oraria è diminuita【(ISTAT 2024, pp. 67–68). Nel solo 2023, il valore aggiunto per ora lavorata è calato dell’1,2%, segnalando un peggioramento della qualità del lavoro. La quantità aumenta, ma il sistema non migliora. E spesso chi lavora, lo fa in condizioni fragili: basti pensare che oltre la metà dei lavoratori e delle lavoratrici part-time vorrebbe lavorare di più, percentuale che nel Mezzogiorno, tra gli uomini, sfiora il 90%【(ISTAT 2024, p. 70).

A questa vulnerabilità occupazionale si somma una cronica debolezza sul piano dell’apprendimento continuo. Solo il 24,3% degli occupati a bassa qualifica partecipa a percorsi non formali, contro oltre il 60% di quelli ad alta qualifica【(ISTAT 2024, p. 84). Il paradosso è evidente: le persone che più avrebbero bisogno di sviluppare nuove competenze, o di aggiornarsi, sono quelle che meno accedono alla formazione. Ed è qui che emerge il ruolo fondamentale della formazione: non può limitarsi a colmare gap tecnici. Deve diventare uno strumento sistemico per sostenere la trasformazione del tessuto produttivo, aumentare la qualità del lavoro, ridurre le disuguaglianze.

Torniamo all’esempio del barista. Se all’inizio lo abbiamo osservato mentre cambia approccio a seconda del contesto, possiamo ora immaginarlo in un percorso di crescita professionale. Magari inizia a gestire turni, organizzare forniture, accogliere clientela internazionale. Ogni passo richiede nuove competenze: gestione, comunicazione interculturale, uso di strumenti digitali. Ma questi saperi non si apprendono una volta per tutte. Si costruiscono nel tempo, in relazione alle trasformazioni del lavoro e del mercato. La formazione, quindi, non è un intervento isolato: è un processo continuo, che permette di passare dalla mera esecuzione alla capacità di interpretare e guidare il cambiamento. È questa la visione che ci serve. E da qui parte la necessità di un nuovo sguardo anche sugli strumenti con cui nominiamo e riconosciamo le competenze.

Le competenze non sono neutrali: storicità, contesto e relazioni 

Il linguaggio delle competenze, se non interrogato, rischia di trasformarsi in un apparato tecnico autoreferenziale. Anzi, forse lo è anche già diventato. Negli ultimi anni, la moltiplicazione di repertori e standard ha alimentato l’illusione di una classificazione esaustiva. Ci ha fatto tendere all’illusione di un’universalità formale, che potesse prescindere dalla realtà sostanziale. Ma, la vera sfida non è solo rendere trasparenti gli apprendimenti: è riconoscerli nella loro complessità situata e storica. Una competenza non è mai universale: ha valore solo se contestualizzata, riconosciuta, agita in relazione in un determinato momento storico, in specifici luoghi. Pertanto, le griglie tecniche, se assolutizzate, rischiano di irrigidire proprio ciò che dovrebbe essere dinamico e vitale.

È in questa direzione che va il pensiero di quei filosofi che hanno parlato di “astrazioni determinate”. Ogni repertorio, ogni standard, è un’astrazione: una semplificazione della realtà necessaria per agire. Ma queste astrazioni devono essere coerenti con gli scopi del sistema che le produce. Se lo scopo è il controllo, saranno rigide. Se è la trasformazione, dovranno restare aperte, dialogiche, rivedibili. L’Atlante del Lavoro, in questo senso, non è neutrale. È uno strumento che può irrigidire o abilitare, a seconda di come viene utilizzato e da chi se ne prende cura, e la modalità con cui lo fa. Se rimane un linguaggio specialistico, sarà utile a pochi. Se diventa un’interfaccia viva tra chi lavora, forma e innova, potrà generare valore.

Pensiamo ancora al nostro barista. Se dovessimo “mappare” le sue competenze in un repertorio, potremmo elencare procedure, strumenti, standard di qualità. Ma cosa accade quando quel barista assume il ruolo di formatore per un apprendista? O quando decide di aprire una propria attività? O si introduce una nuova tecnologia, da meccanica a touch? Le stesse competenze cambiano di senso: diventano capacità imprenditoriali, di leadership, di gestione. Il repertorio, se statico, non coglie queste transizioni. Per questo serve una cultura della classificazione capace di accompagnare i percorsi, non di cristallizzarli. Il riconoscimento delle competenze non può prescindere dal tempo, dal contesto, dalle relazioni. Deve essere un processo negoziato e co-costruito, non una semplice assegnazione. Un wikipedia gestito da differenti stakeholders, a diverso titolo e in differenti modi. Non universali, bensì storicamente dati, che si evolveranno nel tempo.

Verso una nuova cultura della certificazione, è possibile?

La certificazione delle competenze non è – e non può più essere – solo un’esigenza normativa. Non è sufficiente definire standard, strutture e procedure. Occorre una cultura condivisa, capace di restituire senso a ciò che oggi rischia di apparire come un atto burocratico. Se il riconoscimento delle competenze vuole davvero contribuire a uno sviluppo equo e sostenibile, deve fondarsi su un’infrastruttura culturale, prima ancora che tecnica: un sistema di significati, pratiche e relazioni che renda la certificazione uno strumento vivo. Non immutabile, ma dinamico.

L’Atlante del Lavoro, in questo quadro, non è solo una banca dati. È – o può diventare – un luogo di connessione. Un’interfaccia in cui le descrizioni del lavoro incontrano le esperienze reali, le traiettorie individuali, le specificità territoriali. Ma perché questo accada, serve corresponsabilità. Serve che le istituzioni non restino isolate nel loro ruolo regolativo, ma si aprano a un processo di co-progettazione con chi lavora nella formazione, nell’orientamento, nell’impresa. La certificazione, per essere autentica, richiede fiducia: tra attori diversi, tra livelli di governance, tra chi forma e chi apprende.

Questo è uno dei principali temi che si stanno dibattendo all’interno del laboratorio su SNCC del Net Forum, promosso dalla S3.Studium. Dopo aver esplorato le potenzialità dell’Atlante a Genova e ascoltato la community delle agenzie formative, il 1 luglio al workshop di Roma sarà il luogo in cui veranno messe a sistema le varie proposte. Le prime challenge emerse – dai prototipi per la progettazione basata sui risultati di apprendimento alle linee guida per la qualificazione territoriale – ci indicano una strada. Una strada che non separa il riconoscimento dalla formazione, ma li tiene insieme. Una strada che non si accontenta di dire “chi sa fare cosa”, ma costruisce contesti in cui le competenze possano emergere, essere riconosciute e contribuire a una trasformazione condivisa.

Perché le competenze non abitano i cataloghi. Abitano le persone che le mettono in gioco, i contesti e le relazioni. E solo se il sistema sarà in grado di accompagnarle nel tempo – con strumenti agili, cultura condivisa e visione di lungo periodo – potrà davvero affrontare, e non solo descrivere, il mismatch.

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