Le parole, le immagini, i suoni di Scerbanenco e del noir italiano

di Sergio Cavaliere

Temo sia successo anche a me di diventare un fan dico, non solo un appassionato, dei romanzi di Giorgio Scerbanenco. Ed è successo anche a me di partire alla ricerca, una delle ultime volte che mi è capitato di trovarmi a Milano, dello stabile in piazza Leonardo da Vinci angolo via Pascoli in cui Duca Lamberti vive con la sorella Lorenza, e di essere leggermente deluso nel non vederlo uscire dalla sua auto guidata da Livia Ussaro, la sua donna, con le occhiaie di chi è stato tutta la notte in questura a interrogare uno per uno I ragazzi del massacro.

Da molti anni il Noir Film Festival, prima a Courmayeur poi a Milano, assegna il Premio Scerbanenco al romanzo che meglio ha espresso le caratteristiche del genere. Da quest’anno ne è stata creata una sorta di filiazione con l’istituzione del Premio Giorgio Scerbanenco per il Cinema, iniziativa nata in accordo con Cecilia Scerbanenco e con il sostegno di Lombardia Film Commission e Fondazione Cariplo, presieduta dallo scrittore e regista Donato Carrisi. Il 12 aprile scorso il riconoscimento per il 2024 è stato assegnato a Cristina Rava per il suo Il sale sulla ferita, giudicato il più adattabile a una trasposizione cinematografica rivelando come il genere viaggi in un universo in cui cinema e letteratura procedono a braccetto, disegnando personaggi, storie, atmosfere che si influenzano reciprocamente. 

Ma il rinnovato interesse per lo scrittore non si ferma qui: lo dimostra la pubblicazione del volume Scerbanenco a Milano che il giornalista Alessandro Trocino ha dedicato a lui e alla città che ospita i suoi personaggi, nonché la mostra presso il Volvo Studio a Milano delle tavole originali del fumettista Manuele Fior che costituiscono le copertine dei volumi dei romanzi pubblicati da La Nave di Teseo.

Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, nato a Kiev da padre ucraino e madre italiana, si era trasferito temporaneamente in Italia con la madre. Tornati madre e figlio in Unione Sovietica nell’estate del 1920, scoprirono che l’anno prima Valeriano Ščerbanenko, suo padre e professore universitario, era stato fucilato dai bolscevichi nel cortile dell’Università di Kiev assieme a tutti i suoi studenti. Solo dopo un pericoloso viaggio in nave da Odessa, mescolati a profughi di varie nazionalità che cercavano di lasciare il Paese, i due riuscirono a rientrare in Italia.

Autore poliedrico, fra i ’50 e i ’60 ha spaziato da rubriche di posta dei lettori su giornali rosa ai racconti in cui, attraverso i canoni del genere, descriveva la Milano del boom economico che vedeva la trasformazione del tessuto sociale in cui la vecchia «ligera», la malavita autoctona, veniva pian piano sostituita dalle moderne mafie. È la Milano efficiente e spietata del nuovo capitalismo narrata già nel 1964 da Luciano Bianciardi in La vita agra (aggettivo spesso usato in I ragazzi del massacro). La storia è quella di un traduttore precario a cottimo (quale Bianciardi davvero è stato) i cui ideali si infrangono a contatto con la realtà della metropoli e sembra fare il paio con gli inizi nell’industria culturale di Scerbanenco: entrambi a contatto con la élite culturale del tempo, ne ricavano una visione del mondo pessimista e disincantata, scegliendo di raccontare il «miracolo economico» non come una saga di sacrifici e grandi ricompense, oppure come un’epopea di nuove lotte sociali che avrebbero mobilitato nuovi soggetti, non più solo operai ma anche intellettuali, ma di puntare gli occhi sugli aspetti più detestabili, finanche grotteschi, di questa nuova cultura della produttività e della crescita diffuse, attraverso le forme del noir o del romanzo di formazione.

I temi legati alla cosiddetta «modernizzazione» si ritrovano anche in campo musicale. Enzo Jannacci, che Bianciardi ebbe a definire «un poeta di poesia schietta sostenuta da un amore per la povera gente», adopera la chiave comico-surreale per descrivere i soggetti che faticano a star dietro alla modernizzazione del boom economico anche con il ricorso al dialetto come dato di appartenenza alla categoria degli ultimi, espressione del rifiuto all’adattamento a un mondo in via di rapido cambiamento. La prima raccolta registrata nel 1964: La Milano di Enzo Jannacci è formata da pezzi interamente in dialetto e contiene tra l’altro uno dei suoi capolavori riconosciuti, El portava i scarp del tennis, racconto della vita emarginata di un barbone milanese che si conclude con la morte nell’indifferenza della gente («L’an trovaa sota a un muc de carton, / l’an guardaa che ’l pareva nisun, / l’an tucaa che ‘l pareva che ’l durmiva, / lasa stà che l’è roba de barbon»). Altre figure di irregolari sono i personaggi della malavita come L’Armando (1964), colto in un interrogatorio di polizia poiché accusato d’aver ucciso un amico sbattendolo giù dal tram, descritto con rapidi ritratti d’ambiente («stessa strada, stessa osteria») conditi dalla solita ironia («stessa donna, una sola, la mia») e tratti noir («gli han trovato un coltello con la lama di sei dita nel costato»).

Oppure Faceva il palo nella banda dell’ortica (1966): la canzone narra la storia surreale di una banda di piccoli malviventi che affida a un suo membro il compito di fare il palo e badare che non arrivi un poliziotto. Il palo però è cieco e sordo («ha visto nulla, ma in compens l’ha sentii nient, / perché a vederci, non vedeva un’autobotte, / però a sentirci, ghe sentiva un accident!»), sicché non si avvede dell’arrivo della polizia, che arresta tutti i componenti della banda senza accorgersi del palo. O come in Vincenzina e la fabbrica (1974), memorabile anche come colonna sonora del film di Mario Monicelli Romanzo popolare, co-sceneggiato da Jannacci e da Sandro Viola per i dialoghi, che descrive l’emarginazione degli immigrati dal Sud, il rapporto con il mondo operaio, fra presa di coscienza (il marito Ugo Tognazzi è un operaio comunista) e le contraddizioni nel conciliare il personale e il politico (lui si rivela geloso e possessivo, negando ogni visione «progressista e di sinistra»). Con i toni della commedia e del melodramma, condite dal proverbiale cinismo monicelliano, viene raccontata la parabola della Vincenzina della canzone (una spettacolare Ornella Muti) e la sua «emancipazione» dalla padella della ristretta mentalità delle sue origini meridionali alla brace dell’ingresso nel mondo della fabbrica, con la subalternità al capitale che essa comporta. 

I personaggi del (mancato) miracolo economico di Jannacci sono quindi gli stessi che sul piano letterario venivano evocati da Bianciardi o Scerbanenco, ne condividono il substrato sociale di provenienza e il disorientamento morale: quando I ragazzi, sotto il serrato interrogatorio di Duca, dichiarano di non essere disposti a parlare, la mente non può non andare a quel «mi son de quei che parlen no» del protagonista della canzone di Strehler Ma mi, portata al successo da Ornella Vanoni, rinchiuso a «San Vitur a ciapaa’ i bott» come i ragazzi al Beccaria, con la stessa vita agra alle spalle («quatter amis, quatter malnatt,vegnu su insemma compagn di gatt») e nessun futuro davanti. Alla fine qualcuno cede, senza che ciò significhi il ristabilimento di un ordine morale e della cosa è cosciente in primis lo stesso rappresentante della legge: «Quel ragazzo preso a coltellate aveva molte cose da dire e queste cose avrebbero aiutato Duca a scoprire la verità e la verità era l’unica cosa che interessava a Duca, anche se poi non serviva a nulla» (da I ragazzi del massacro).

Forse è questo il vero senso del noir, che ne fa un genere inquietante e maledetto: la sensazione che tutti gli sforzi dei personaggi non portino ad alcunché, lasciandosi dietro solo disillusione e quell’amaro in bocca che impedisce alla storia di avere un lieto fine. 

De Giovanni, Lucarelli, De Cataldo, Carrisi, Camilleri e molti altri scrittori hanno di recente fatto del noir italiano un genere di grande successo, ma per molto tempo, anche dopo il precursore Scerbanenco nella prima metà degli anni ’60, con poche eccezioni (una su tutte La donna della domenica di Fruttero e Lucentini) il genere è rimasto pressoché ignorato dagli autori italiani. Qualcuno ne ha individuato la ragione nella mancanza di un quadro di regole sociali e morali condiviso nella società italiana, cui un genere come il noir deve pur sempre fare riferimento: è vero, come si è detto, che il bene non vince sul male nel noir, ma saper distinguere fra i due risulta comunque essenziale per il fluire del racconto. Più prosaicamente, forse, i grandi scrittori d’oltreoceano, a partire dai capostipiti dell’hard-boiled, offrivano al lettore italiano la possibilità di immergersi nel mondo descritto fra New York e Los Angeles, senza doversi porre domande sulla società italiana. 

Ho appena finito di leggere I ragazzi del massacro, forse il più crudo della quadrilogia che vede come protagonista Duca Lamberti: qui il caso affidato al detective non porta al ristabilimento dell’ordine morale e sociale, ma a un senso di inadeguatezza e di inutilità in cui il protagonista addirittura si accinge, nelle ultime pagine, a spiegare alla sua donna il perché spera che il colpevole non paghi con la morte il suo delitto. La spiegazione è però lasciata «fuoricampo» con tecnica quasi cinematografica, perché il libro si chiude proprio su questa promessa, lasciando il lettore disorientato e disilluso. 

Nei primi due romanzi della quadrilogia, Venere privata e Traditori di tutti, Duca non è nemmeno ufficialmente un rappresentante delle forze dell’ordine e nell’ultimo, I milanesi ammazzano al sabato, si dimette: lo era il padre, rimasto ucciso in servizio (qui chiaramente una nota autobiografica). Lui è un medico radiato dall’albo per aver praticato un’iniezione letale a una malata terminale. Al riapparire di una figura paterna, il commissario Carrua amico di suo padre, Duca accetta di occuparsi dei casi quasi a cercare di comporre il conflitto che aveva caratterizzato il suo rapporto col genitore. Nei romanzi appare certo come membro delle forze dell’ordine, ma le sue indagini si discostano continuamente dal corso normale e le sue certezze «progressiste» si incrinano, nonostante la presenza di Livia Ussaro, donna concreta e razionale, rifiutandosi ad esempio di spiegare i comportamenti delittuosi dei giovani protagonisti di I ragazzi del massacro con un determinismo sociale basato su condizioni sociali disagiate e su famiglie disfunzionali.

Poi c’è Milano, attraversata in lungo e in largo, con la topografia riportata in dettaglio: ormai esistono percorsi Duca Lamberti o Scerbanenco che il lettore appassionato può percorrere seguendo la toponomastica dei romanzi: piazza Leonardo da Vinci (zona Città Studi) era l’estrema propaggine della città borghese che si insinuava nelle periferie operaie di Lambrate, negli anni Settanta regno di fabbriche e officine, ma anche del crimine organizzato. 

Personalmente a Milano, città che mi infonde un senso di sicurezza, mi trovo a mio agio, ho la sensazione che tutto ciò che vedo intorno a me sia frutto di una creazione che non preveda né l’intervento un dio né un processo della natura, entità misteriose e sconosciute, ma solamente l’opera dell’uomo. Allora perché questa sensazione di pericolo imminente? Dissolvenza incrociata. Ora mi trovo in piazza del Duomo… ed è subito Milano Calibro 9 e il suo famoso incipit. Per la verità la sequenza iniziale del film parte dalla Torre Branca di Parco Sempione, dove con un carrello verticale si scopre il primo piano di un uomo in impermeabile, il cui tic alla spalla ci porta con un’ellisse in una piazza del Duomo sommersa dai piccioni, dove avviene il primo scambio di un involucro contenente danaro ma che, dopo vari passaggi si scopre essere pieno di carta straccia. Alfred Hitchcock aleggia sull’intera sequenza: c’è quello che lui chiamava «mcguffin», cioè quel particolare artificio narrativo (qui il pacco coi soldi) che serve a creare la suspense, c’è addirittura il fugace cameo del regista Fernando Di Leo (l’uomo nella cabina telefonica) come era solito fare il maestro. Una sequenza di 32 inquadrature che registrano la maturità stilistica del regista pugliese in un montaggio serrato che si conclude con i titoli di testa sullo sfondo di una Milano nebbiosa, metallica e amorale, antitetica rispetto alla decantata virtù contemporanea. La colonna sonora, nata dalla collaborazione tra Luis Bacalov e gli Osanna, segna l’irruzione del prog italiano tra le trame criminali del genere. Lo fa attraverso accostamenti dissonanti, crescendo vorticosi e un mirabile contrappunto tra la plumbea Milano raccontata da Giorgio Scerbanenco e le aree orchestrali della traccia sonora. Quanto al suono degli Osanna, la cui anima sporca e rock (soprattutto la chitarra hendrixiana di Danilo Rustici), li distanzia da un certo progressive pomposo che va per la maggiore (Pfm, Orme, Bms).

Dal romanzo al film

La trasposizione cinematografica più famosa e di successo dei romanzi di Scerbanenco non appartiene quindi alla quadrilogia di Duca Lamberti, ma è stata tratta da una omonima raccolta di racconti brevi: il film di Fernando Di Leo si ispira più alle atmosfere che alla lettera delle storie della raccolta, ma proprio per questo riesce a rendere con efficacia lo spirito dello scrittore. Nella migliore tradizione del cosiddetto «cinema di genere», tutto sesso, violenza e azione e destinato al largo pubblico dei cinema dell’epoca, mostra spunti di autorialità, come nella già descritta sequenza iniziale. Come in America con i film dell’ispettore Callaghan anche in questo caso il film e un po’ tutti i cosiddetti «poliziotteschi-noir» dell’epoca furono tacciati di simpatie di destra e Scerbanenco subì la stessa sorte: gli omosessuali erano «invertiti», gli uomini di colore erano «negri» e nel film come nei libri chi cerca di dare spiegazioni sociologiche al crimine viene smentito se non ridicolizzato. Dei romanzi della quadrilogia, solo Traditori di tutti non vedrà una versione cinematografica ma, inopinatamente, una versione musicale: quella dei Calibro 35, che partendo dal prog degli Osanna, mettono il noir in musica.

Il loro leader, Enrico Gabrielli, dopo la militanza negli Afterhours, decide di lasciare il gruppo, ormai monopolizzato dalla ingombrante presenza di Manuel Agnelli, e forma i Calibro 35, con un nome dalla chiarezza programmatica di un manifesto: Morricone, Bacalov, Cipriani, Micalizzi e gli altri musicisti autori delle più importanti colonne sonore del cinema di genere sono il loro punto di riferimento. Già qualche anno prima gli Afterhours avevano pubblicato I milanesi ammazzano il sabato prendendo a prestito il titolo dell’ultimo romanzo della quadrilogia di Duca Lamberti, ma lo stile non è più l’indie-rock del gruppo originario ma un funk-jazz con spunti progressive, sempre condito da ironia: Dalla Bovisa a Brooklyn, La polizia s’incazza, sono alcuni esempi di titoli che, uniti ad alcune riuscite cover di brani dell’epoca, lanciano il gruppo verso produzioni più personali, come il succitato Traditori di tutti dove il racconto a tinte noir di Scerbanenco viene rivisitato in musica con 12 tracce interamente strumentali in cui la straordinaria perizia tecnica riesce a dare il giusto rilievo a titoli come The butcher’s bride o Miss Livia Ussaro direttamente ispirati ai personaggi del romanzo. Il successivo exploit della colonna sonora della serie televisiva di Rai 1 Blanca darà ai Calibro 35 il successo che meritano.

All’ascolto è innegabile comunque una certa dose di effetto nostalgia con quel gusto un po’ retrò dei cinema fumosi degli primi anni ’70 in cui si proiettavano due film a serata e non era obbligatorio uscire alla fine delle proiezioni, in cui si alternavano i generi e le musiche, dal western al poliziesco, da Zorro a Sansone e in cui per mille volte si inceppava il proiettore e il gestore alla milleunesima volta poteva uscire in galleria e dire: «Mi dispiace, si è rotto il proiettore e comunque l’assassino era il maggiordomo». Dissolvenza. Nero.

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