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Lavoro: i diritti classici a rischio e i nuovi diritti dei quali non si parla

Il Consorzio si occupa di gestione dei servizi e sviluppa piani di orientamento e apprendimento continuo

di Giulia Calvaruso
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di Susanna Camusso, Senatrice della Repubblica Italiana

Gli ultimi anni sono stati per molti aspetti un succedersi di crisi: quelle finanziarie, trasferitesi poi nell’economia, la pandemia globale del covid, seguita poi da due conflitti, vicino e dentro il vecchio continente che mettono a nudo tutta la debolezza della capacità di «governare» dell’Occidente e hanno ridato più spazio alla politica di riarmo che alla capacità di mediare i conflitti. In tutto questo sembra forse anche entrata in crisi l’entusiastica lettura della globalizzazione e del mercato senza frontiere. 

Fragilità della globalizzazione e dipendenze energetiche

Se la pandemia ha dimostrato la fragilità della divisione internazionale del lavoro fondata sulle filiere lunghe e sull’esternalizzazione delle produzioni a basso valore aggiunto, i conflitti hanno posto in evidenza le dipendenze energetiche e i relativi costi. La pandemia però ha funzionato anche da acceleratore della transizione digitale o quarta rivoluzione industriale. Se abbiamo conosciuto il lavoro a distanza come necessità, non c’è dubbio che nelle sue varie forme non è stata solo una nuova modalità organizzativa, ma ha generato una riflessione sul lavoro, la sua relazione con il tempo e la libertà nel lavoro. Così come l’intelligenza artificiale e gli algoritmi si sono rivelati essere già parte dell’organizzazione del lavoro, dei tempi, dei servizi, ben più di quel che si pensasse, nelle grandi imprese e anche in quote di quelle medie, e impongono nuove prospettive e nuova organizzazione del lavoro. 

Tutto questo è emerso troppo poco, anche perché la società della comunicazione immediata, quella dove una notizia diventa globale in pochi secondi, anche se la verifica della sua veridicità o meno la segue con molta più lentezza, e in genere dopo che ha prodotto guasti, è una società che non conosce e non sa più parlare di lavoro. Il lavoro è presente solo come un numero, quello degli occupati. Su quello si sprecano fiumi di parole e soprattutto di autopromozione dei governi e delle loro politiche, ma quel numero non basta a leggere il mondo del lavoro. 

Oltre il numero degli occupati

Dopo un’ondata di riduzione dell’occupazione connessa alla crisi covid, si sono affacciate, ma non approfondite, alcune tendenze che rivelano come per capire il lavoro non basti guardare solo all’occupazione: il rifiuto di lavori sfruttati e malpagati, l’importanza data nel valutare un lavoro alla possibilità di fare smartworking, rivendicazioni economiche e non solo, anche di senso, di professionalità del lavoro svolto. Il solo numero, quanti milioni di lavoratori e lavoratrici ci sono nel mondo, non basta quindi a descrivere la situazione. Ancor di più non basta per dire che cresce il benessere come si suggerisce quando si vanta come successo il segno più dell’occupazione, visto che la quota di salari continua a ridursi a vantaggio di quella dei profitti. Eppure da qualche anno anche nella discussione sull’evoluzione e l’innovazione tecnologica, sulla rivoluzione digitale, il lavoro compare solo in termini di quantità di posti di lavoro creati o distrutti. Si raccontano elenchi di professioni che scompariranno, o di nuove nascenti, anche se su queste le notizie sono più nebulose e i numeri si rincorrono. 

Transizione ambientale e limiti del modello industriale

Sorte non migliore tocca alla transizione ambientale, anzi il pericolo di riduzione dei posti di lavoro è l’argomento preferito per bloccare processi di contrasto al cambiamento climatico, come avviene ad esempio nel caso dell’industria automobilistica: il motore termico assume il ruolo di orizzonte dell’occupazione in Europa. La scelta di politica industriale europea di non elaborare una propria piattaforma di produzione dell’auto elettrica, limitandosi ai dazi sulle importazioni, mentre alcuni Paesi (Italia compresa) confidano negli investimenti dei produttori cinesi sul proprio territorio, è una rinuncia ad avere una produzione europea di auto elettriche a prezzi accessibili per un’ampia fascia della popolazione. Certo, l’auto elettrica sarà una fase, il futuro potrà essere l’idrogeno, ma intanto le auto elettriche europee sono molto costose, quelle cinesi sono «popolari». In questo esempio, alla lettura che si ferma ai numeri si unisce un altro limite della società attuale: un capitalismo sempre più refrattario a investimenti che contribuiscano a rendere la società meno diseguale. 

Il risultato di tutto questo è che siamo di fronte a una brutale polarizzazione del lavoro, con diseguaglianze crescenti e un ridimensionamento continuo del cosiddetto ceto medio che si impoverisce e alla crescita anche nel mondo industrializzato del lavoro povero, informale, sfruttato. Fino ad anni recenti interveniva a moderare questa tendenza la mediazione tra capitale e lavoro che anche attraverso il welfare determinava un almeno parziale riequilibrio di redditi e potere. Sì, anche di potere, perché ha determinato attraverso diritti e conquiste di far valere un potere di conoscenza innanzitutto del lavoro e di come era organizzato, di contrattazione delle condizioni, della sicurezza e degli orari, oltre che dei salari, indubbiamente ancora da accrescere e diffondere nel mondo, ma che ha dato senso all’innovazione e agli investimenti non come pura massimizzazione dei profitti. 

Massimizzazione dei profitti e ruolo della digitalizzazione

In questa fase invece sembra interessare solo proprio la massimizzazione dei profitti, e anche la digitalizzazione e l’IA sono raccontate come strumento utilizzabile a questo scopo, anche a costo della giustizia sociale e della democrazia, come dimostra la discussione su IA e democrazia. E parte del modo con cui la digitalizzazione dovrebbe massimizzare i profitti è proprio smontando l’effetto calmierante della mediazione.

Non a caso l’Unione Europea ha recentemente approvato un regolamento sull’intelligenza artificiale che non è certo tenero nell’indicare i rischi, e lo stesso nostro governo ha da un lato ridotto le prerogative informative introdotte dal precedente governo, ma ne ha introdotte altre con però un ostacolo non da poco: la salvaguardia anche dai lavoratori del segreto industriale. I precedenti regolamenti europei hanno previsto per esempio la possibilità di andare alla fonte dell’algoritmo per difendere la concorrenza, ma ancora nessuno ha previsto un analogo intervento per difendere i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Questo tipo di intervento sarebbe invece necessario proprio ora, non trascurando quelli che oggi potrebbero sembrare segnali deboli, perché meno diffusi – l’utilizzo effettivo dell’IA, si riscontra secondo un’indagine Inapp nel 3% delle imprese, mentre ben più alto è l’utilizzo di algoritmi – ma che producono effetti già visibili. 

Contrattare l’algoritmo: una priorità

Perché quello che è stato tradotto con la formula «contrattare l’algoritmo» è essenziale ora, non quando tutto il sistema si sarà uniformato. Perché sono molti i problemi sollevati da queste tecnologie, non inevitabilmente ma per effetto delle scelte, richieste di chi li fa programmare.

Richiamavo prima la volontà in partenza di eliminare il fattore di relazione nei rapporti di lavoro, a cui si somma un effetto derivante dai pregiudizi, bias, figlie della selezione dei dati che hanno alimentato gli insegnamenti alla macchina. Come dimenticarsi che Alphabet licenziò Timnit Gebru perché aveva denunciato le discriminazioni presenti e poi riprodotte negli algoritmi predittivi. Può un algoritmo fare selezione delle domande di assunzione o sarà condizionato dai pregiudizi sulle lavoratrici da destinare solo alle attività di cura? Non è un paradosso, e potrei citare molti altri scenari.

Torna anche il tema del controllo a distanza, che i sistemi possono effettuare, e quello dei dati: come sono immagazzinati, con quali filtri e quali consensi? L’IA può regolare i flussi produttivi, determinando mansioni e spostamenti, ma ha le informazioni per conoscere le professionalità o solo la mansione di quella posizione? Conoscere in quale contesto si lavora, con quali interlocutori, è un punto essenziale perché il lavoro possa essere autonomo, in grado di affrontare e risolvere problemi, perché non ci sia sfruttamento, perché non sia pericoloso. Ogni lavoratore, ogni lavoratrice è in realtà unico e quella di dipendere dai dati che non conosci e non ti conoscono può rappresentare una vera trappola, non meno del modello fordista. Senza volermi addentrare in un’analisi dettagliata delle vicende storiche, non vi è dubbio che all’origine dei grandi cambiamenti nel lavoro, come nella sicurezza, ci siano non solo nuove tecnologie, ma i saperi, l’esperienza e la conoscenza dei lavoratori, e queste ultime difficilmente possono svilupparsi quando le condizioni di lavoro sono precarie e temporanee. Non è creativo solo chi inventa una nuova tecnologia, lo è anche chi riesce a lavorare meglio, e a sentirsi riconosciuto nel lavoro.

Qualità del lavoro e nuovi diritti

Esiste tutto ciò fuori dalla contrattazione e dalla relazione? Esiste quella capacità di leggere lo stress o le condizioni negative, i bisogni, insomma quella somma di diversità che sono i nostri comportamenti? E quale qualità del lavoro resiste se questi temi non sono neanche nominati? 

Ci sono altre domande che potremmo definire retoriche: quanto dello studio e della ricerca sull’IA e comunque sul digitale è dedicato alla sicurezza sul lavoro? Può per esempio l’impatto in questo campo essere un vincolo per riconoscere incentivi, accettare brevetti, autorizzare sistemi? Può il layout di una produzione tenere conto solo della accelerazione dei processi di attraversamento guidati dall’algoritmo senza domandarsi dove si trovano o camminano le persone e come si interviene per prevenire incidenti? La prima difesa essenziale per i lavoratori è la conoscenza: così come per contrattare il cottimo fu necessario sapere (e controllare) come veniva calcolato, lo stesso occorre per i cottimi moderni, quelli regolati dalle piattaforme, anche quando si chiamano «reputazionali».

Poi ci sono le domande sulla redistribuzione: se parte del lavoro si trasferisce sull’utente, se tanto altro viene assorbito dalla robotizzazione, se si regolano più rapidamente i flussi, come si distribuirà il lavoro? Tutte le precedenti rivoluzioni industriali hanno portato alla riduzione dell’orario. Questa appare invece sotto molti aspetti ridurre ogni spazio, annullare i confini tra lavoro e non lavoro nella connessione permanente, per molti, ma pochi in confronto alla popolazione. È uno degli effetti della polarizzazione, ma ricade su tutti, anche nelle forme di sfruttamento più brutali. 

Nuove prospettive

Quale prospettiva di benessere c’è in una società così polarizzata, che fa crescere le diseguaglianze? Allora se sono evidenti diritti classici del lavoro che rischiano di essere compromessi se non si trovano strumenti per regolare l’IA (vale per il lavoro come per le libertà individuali, la cittadinanza, l’informazione, la democrazia e altro ancora) come si affronta il tema dei nuovi diritti? Nel flusso determinato da queste tecnologie quali sono i nuovi diritti necessari, e possono le istituzioni ignorare oltre a funzioni regolatorie anche quelle di infrastruttura sociale necessaria, anche con l’ausilio delle tecnologie? 

L’accesso alle connessioni, e il diritto alla disconnessione, l’accesso alle informazioni, la protezione dei dati, sono temi su cui ci sono sperimentazioni interessanti, che possono essere generalizzate e intervengono su diseguaglianze già in essere. 

Ma altrettanto essenziale è uscire dalla retorica degli skill, che riproduce la diseguaglianza, tra chi può accedere e chi no. Per semplificare, non può essere che immaginiamo la nuova classe media e l’aristocrazia del lavoro composta solo da coloro che possono programmare un sistema, o che sanno interagire con l’IA. Ci vuole come già nel passato per determinare giustizia sociale una scelta di istruzione di massa, quella che serve per affrontare il nuovo e il cambiamento permanente, che si colleghi anche a una dimensione di formazione (non di apprendimento esclusivamente tecnico o di mansione) che permetta di interagire con il contesto, di avere gli strumenti per guardare al cambiamento come possibile e non come rischio di marginalizzazione.

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